L’approccio del Vaticano alla guerra in Ucraina merita di essere preso sul serio. Come una sorta di termometro, il piccolo Stato si conferma un osservatore acuto e autorevole, un attore discreto e informato le cui mosse possono servire a comprendere ciò che agita il mondo di oggi. Mai come in questi giorni tutto ciò si è reso visibile e andrà certamente analizzato in futuro. Le tensioni in Ucraina e la successiva invasione decretata dal presidente russo Vladimir Putin hanno messo in moto un apparato complesso, culminante nella figura del papa, che nel caso di Francesco ha un elemento di originalità rispetto ai predecessori, chierici di nazioni e Chiese liberate e protette dagli americani durante la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda.

Il primo passo è stata la dichiarazione ufficiale del segretario di Stato, Pietro Parolin, che il 24 febbraio ha parlato di uno scenario in cui «c’è ancora spazio per il negoziato, c’è ancora posto per l’esercizio di una saggezza che impedisca il prevalere degli interessi di parte, tuteli le legittime aspirazioni di ognuno e risparmi il mondo dalla follia e dagli orrori della guerra». Il cardinale non è entrato (né poteva entrare) nel merito delle cause, ma ha posto l’accento sui metodi perseguibili oltre quelli già perseguiti, evitando opportunamente di sposare una narrazione del conflitto che attribuisse patenti confessionali, non solo in senso religioso. Sono le basi della diplomazia vaticana, ma se si parla di questo non si può fare a meno di riandare agli anni Sessanta-Settanta, alla cosiddetta Ostpolitik della Santa Sede che, allontanatasi dal paradigma di una Chiesa cattolica come baluardo spirituale dell’Occidente, iniziò a coltivare rapporti con l’Est Europa, con quegli Stati sorti dal crollo degli imperi anche se ancora in regime di «sovranità limitata». In anni politicamente complessi come quelli dei regimi comunisti, della crisi di Berlino del 1961 e dei missili cubani del 1962, in piena Guerra fredda e durante l’altra Ostpolitik, quella di normalizzazione dei rapporti tra la Ddr e i Paesi del blocco orientale a opera del cancelliere tedesco Willy Brandt, la politica internazionale vaticana tentò di facilitare il dialogo tra blocchi contrapposti, secondo una rinnovata visione universalistica di se stessa che era maturata al concilio Vaticano II (1962-1965) e che portò la Santa Sede a giocare un ruolo importante a Helsinki nel 1975 nonché poi, sotto Giovanni Paolo II, all’ultima fase della Guerra fredda fino al crollo del blocco orientale negli anni 1989-1991.

La Santa Sede ha evitato di attribuire patenti confessionali al conflitto, non solo in senso religioso. Sono le basi della diplomazia, ma se si parla di Vaticano è impossibile non riandare agli anni Sessanta-Settanta, alla cosiddetta Ostpolitik

Ma, come ha scritto Marcello Flores, l’attuale crisi ucraina non sopporta di essere letta con le lenti del secolo scorso. Non è stata la rinuncia a una «deterrenza permanente» ad aver provocato la guerra in corso, ma una visione neo-imperialista russa che incrocia passato e presente in modo conforme al nuovo disordine globale, dove anche religione e politica si mischiano secondo parametri non esattamente sovrapponibili a quelli del passato. E d’altro canto ci sono precise responsabilità in Occidente, se si pensa alla sottovalutazione (si veda il commento di Alfio Mastropaolo) delle ambiguità e delle aggressività diffusesi negli ultimi anni, aventi tutte come obiettivo diretto o indiretto le democrazie liberali sorte nel secondo dopoguerra.

Un secondo passo, il giorno dopo la dichiarazione di Parolin, è stata la visita di papa Francesco in persona all’ambasciatore russo presso la Santa Sede: una «rottura del protocollo» possibile solo grazie al superamento degli schieramenti novecenteschi, la cui necessità, forse più di ogni altro attore in Occidente, il Vaticano è riuscito a cogliere e poi a realizzare con l’elezione di Francesco, dopo un pontificato caratterizzato da un’evidente «timidezza internazionale» come quello di Benedetto XVI e mentre perduravano vecchie eredità riconducibili al pontificato di Giovanni Paolo II. Ma nei confronti di ciò Francesco ha agito principalmente da «neutralizzatore», cercando di riposizionare l’azione politica della Chiesa, più che sulla base dell’etica dei «valori non negoziabili» o dell’anti-comunismo, tramite un raccordo, ormai in controtendenza, tra politica internazionale e geopolitica (sulla cui distinzione è da leggere il saggio di Andrea Ruggeri sul numero 2/2021 di questa rivista), servendosi anche della rivista dei gesuiti «La Civiltà Cattolica» (da qualche anno non a caso pubblicata in più lingue, sempre al vaglio della Segreteria di Stato) che aveva già delineato al riguardo una mappa storica, geografica e politica, oltre che ecclesiale.

Così il 26 febbraio è stata la volta del presidente ucraino, Volodymyr Zelens’kyj, a cui il papa ha telefonato per esprimere la propria vicinanza. Il gesto è stato ovviamente apprezzato da Zelens’kyj, che ha ringraziato il pontefice pubblicamente e a nome dell’intero popolo ucraino, al netto di alcune divisioni interne, specie tra i cattolici. Ciò ha significato per Francesco non solo un atto dovuto, richiesto da un certo «multilateralismo» tipico della diplomazia, ma anche il perseguimento degli obiettivi diplomatici attraverso il riadattamento del motto per cui occorre «trattare e non condannare», di cui scrisse decenni fa Hansjakob Stehle relativamente ai papi e al comunismo. E in questo quadro rientra anche il desiderio che prima o poi un papa riesca a mettere piede a Mosca, con tutto ciò che questo già comporta in termini di costi diplomatici, dato il dovere di una certa neutralità.

Il Vaticano ha superato gli schieramenti novecenteschi, ma ha agito principalmente da neutralizzatore. Anche alla luce dell’accordo Cina-Vaticano e degli strascichi che la guerra lascerà, c’è da chiedersi se non ci sia bisogno di una nuova Ostpolitik

Un discorso a parte, ma non del tutto, meriterebbe il lato spirituale, essendo esso inseparabile da un’analisi intorno a un’enclave rappresentativa di una parte non irrilevante di cristianesimo mondiale. L’invito di papa Francesco a digiunare per la pace nel giorno in cui inizia la Quaresima latina, il periodo penitenziale per eccellenza in vista della Pasqua, non è totalmente altro dalla gestione politica della crisi in Ucraina, perché il digiuno o la preghiera sono un modo con cui la comunità denuncia una prospettiva economicistica e si rimette alla creazione di una sensibilità performativa, ma sono anche un argine alle tensioni della diplomazia. Per questo l’appuntamento domenicale dell’Angelus è il caso forse più esemplificativo, in cui il papa non solo recita la preghiera ispirata al Vangelo di Luca, ma coglie l’occasione per lanciare degli appelli o porre in evidenza delle questioni di importanza globale (questa domenica citando anche l’articolo 11 della Costituzione italiana).

Quelle dello Stato più atipico del mondo (uno Stato sovrano non democratico e non costituzionale a protezione di una Chiesa cattolica che si batte per la democrazia e i diritti umani) non sono mosse lasciate al caso. Ma i fatti recenti, mentre sono cominciati i negoziati a Gomel, in Bielorussia, impongono di chiedersi se anche alla luce di un importante precedente come l’accordo Cina-Vaticano non si debba parlare della necessità di una nuova Ostpolitik. Nell’economia del pontificato attuale, la Cina e la Russia sono apparse subito interlocutrici privilegiate, non soltanto perché un papa non europeo può agire libero da qualsiasi fascinazione eurocentrica, ma soprattutto a causa delle traiettorie politiche e religiose che oggi intersecano questi Paesi, che non sono più una periferia economica o politica, ma restano una periferia culturale nell’esperienza quotidiana del cittadino occidentale, specialmente credente. Anche per questo ci sarà da fare i conti con gli strascichi che la guerra lascerà, ben al di là di come evolveranno i negoziati e di come si concluderà il conflitto. In questo senso il modello dell’Ostpolitik non è nient’altro che storia.