Era stato l’“Economist” a definire la Germania il “malato d’Europa” quasi 25 anni fa. E non è solo l’“Economist”, oggi, a chiedersi se non lo sia diventato nuovamente. Non è usuale vedere grandi scioperi in Germania: l’approccio corporativista alle relazioni industriali – che nel tempo si è espresso nelle varie forme di “azione concertata” e “cogestione” – l’ha tenuta spesso al riparo da un problema che in altri momenti di crisi ha scosso Paesi da questo punto di vista più instabili. Eppure, sono più di dieci giorni che il governo di Berlino è alle prese con trattori che bloccano le strade, ferrovieri a braccia incrociate, maestri e medici in subbuglio. Qualcosa, nella ben oliata macchina tedesca, sembra essersi inceppato.

Alla base dello sciopero degli agricoltori si trova la decisione del governo di interrompere i sussidi per l’acquisto del gasolio e di tagliare l’esenzione delle tasse sui veicoli a motore. La scelta del governo nasce da una situazione complicata. Il 15 novembre 2023 la Corte costituzionale di Karlsruhe ha di fatto aperto una crisi di bilancio bocciando un provvedimento che nel 2021 aveva cambiato destinazione a sessanta miliardi di euro, stanziati in origine per il contrasto al Covid-19 e dunque dirottati nel fondo per la transizione ecologica, il Klima- und Transformationsfond. A ciò si è aggiunta la reintroduzione della Schuldenbremse, il tetto all’indebitamento introdotto durante la grande crisi post-2008 e sospeso durante l’emergenza sanitaria. Il “buco” da sessanta miliardi prodottosi con la decisione di Karlsruhe, dunque, non potendo essere coperto a debito, deve esserlo attraverso dei tagli alla spesa pubblica, che nel caso specifico hanno colpito soprattutto il settore agricolo. Eppure, la notizia dello sciopero degli agricoltori è solo l’ultimo di una serie di problemi che minano la stabilità della Repubblica Federale almeno dallo scoppio della guerra in Ucraina: oggi il Paese è in recessione tecnica, si accumulano fallimenti e insolvenze e il Fondo monetario internazionale prevede che persino la Spagna crescerà più della Germania.

Le ragioni dell’apparente declino tedesco sono molteplici: una demografia ostile alla crescita, troppa burocrazia, inflazione e tassi di interesse oltre il normale, aumento dei costi dell’energia e contrazione dei mercati d’esportazione. Gli ultimi due fattori sono particolarmente rilevanti, perché rientrando tra i cosiddetti shock esterni, ovvero al di fuori o solo parzialmente sotto il possibile controllo della politica interna, richiamano la necessità di un ragionamento complessivo che metta insieme politica economica e politica estera – due aspetti che globalizzazione e interdipendenza economica hanno reso d’altra parte inestricabili.

È con il cancellierato di Schroeder che si è cominciato a parlare di “nazione commerciale”, nozione che ha sostituito dunque quella di “potenza civile”

Se questo legame è vero per tutti i Paesi inclusi nel sistema internazionale, è particolarmente vero per la Germania, che proprio su una dottrina economicista ha basato – e dovuto basare per ragioni storiche – la propria proiezione internazionale dal dopoguerra in avanti. Ma se per i primi sessanta anni della sua esistenza questo economicismo venne sostanzialmente inscritto in un approccio alle relazioni internazionali prevalentemente normativo, da “potenza civile”, gli anni 2000 hanno innescato un cambiamento di cui adesso, forse, iniziamo a intravedere la fine. È con il cancellierato di Schroeder che si è cominciato a parlare di “nazione commerciale”, nozione che ha sostituito dunque quella di “potenza civile” in virtù di un nuovo realismo che ha derivato tutto il suo peso dall’enorme crescita dell’export tedesco; la realizzazione di un primato, quello dell’Exportweltmeister che Jan-Otmar Hesse ha recentemente definito nel suo ultimo libro una secolare “ossessione tedesca”, ha spinto infatti la Germania ad abbandonare, almeno in parte, l’idea di una civilizzazione delle relazioni internazionali in nome della propria prosperità. Ed è con Schroeder quindi che Berlino si è avvicinata alla Russia di Putin – nel 2005 l’accordo per il Nord-Stream – e alla Cina. Un approccio, questo, dal quale non si è discostata Angela Merkel, almeno fino all’invasione della Crimea.

Gli aspetti politici sono passati in secondo piano e il Wandel durch Annäherung (cambiamento attraverso il riavvicinamento) dell’Ostpolitik di Brandt è diventato il Wandel durch Handel (cambiamento attraverso il commercio) della Germania del nuovo millennio. Ma quella che è la forza tedesca – e che viene spesa dalla crisi dell’eurozona in avanti in termini di hard power soprattutto in Europa – è anche la sua debolezza. Nel 2010 Simon Tilford aveva descritto l’economia tedesca come “strutturalmente dipendente dalla domanda estera”. A oggi la situazione non è cambiata, ma a essere completamente cambiato è lo scenario internazionale. L’invasione dell’Ucraina ha danneggiato le relazioni con la Russia (e soprattutto la fornitura di gas siberiano), già messe a dura prova nel 2014. La Cina è ancora uno dei principali partner commerciali di Berlino, ma da Pechino si importa ormai più di quanto si esporti: nell’ultimo anno, rispetto al 2022, le esportazioni di autovetture tedesche verso il Paese asiatico sono diminuite del 24%. Nella “Strategia sulla Cina”, pubblicata in estate dal governo tedesco, si prende dunque atto di un cambiamento strutturale nei rapporti con il Paese asiatico che non figura più solamente come un partner commerciale, ma anche come un “competitor” e un “rivale sistemico”. Si invoca dunque un dietrofront rispetto alla strategia precedente: ridurre la dipendenza tedesca da Pechino è l’obiettivo del decennio. E i fatti – dal caso Cosco al fallimento di alcune acquisizioni nel campo dei semiconduttori bloccate dal ministro dell’economia Habeck – confermano quanto effettivamente l’approccio tedesco verso Pechino sia totalmente cambiato.

Il peggioramento delle relazioni politiche e commerciali con Cina e Russia, due di quelli che avrebbero dovuto essere i principali partner della Repubblica Federale, non è un dato sul quale si possa sorvolare con superficialità

Il peggioramento delle relazioni politiche e commerciali con due di quelli che avrebbero dovuto essere – assieme all’Ue e agli Stati Uniti – i principali partner della Repubblica Federale non è però un dato sul quale si possa sorvolare con superficialità, per almeno due ragioni. La prima riguarda il rinnovamento della dimensione strategica della Germania. La seconda riguarda le ricadute interne della possibile fragilità del modello economico tedesco. Il “fallimento” del Wandel durch Handel, infatti, ne presuppone la sua perlomeno momentanea dismissione: il riallineamento all’Occidente è d’obbligo, l’avventurismo verso Est deve essere ripensato. Non sono solo le relazioni bilaterali con la Cina e la Russia a essere cambiate, ma l’intero scenario dei rapporti internazionali. I leader tedeschi sembrano esserne consapevoli; è in questo quadro che va inscritta anche la Zeitwende, ovvero la svolta epocale con la quale la Germania ha deciso il 27 febbraio del 2022 di abbandonare la tradizionale (dal dopoguerra) diffidenza verso lo strumento militare. “Stiamo vivendo uno spartiacque nella storia. Il mondo non sarà più quello che è stato fino a ieri. […] Tutto questo ci impone di dotarci di una nostra forza”: con queste parole Scholz ha dunque annunciato l’istituzione di un fondo speciale da 100 miliardi di euro per la difesa e il raggiungimento ogni anno del 2% del Pil per le spese militari. Risorse che in prospettiva porterebbero la Repubblica Federale a essere, nucleare escluso, la terza potenza militare dietro Stati Uniti e Cina. Senza soffermarsi sulle difficoltà di implementazione che il piano sta a oggi riscontrando, ciò che interessa sottolineare è quanto la frammentazione multipolare abbia imposto una rivalutazione della dimensione militare che è a sua volta sintomo di un ripensamento drastico dell’approccio strategico della Repubblica Federale. Nel 2015 Hans Kundnani l’aveva definita “il più puro esempio di potenza geoeconomica al mondo”, proprio in virtù di una combinazione unica di assertività economica e astinenza militare; a oggi l’astinenza militare sembra essere finita, mentre l’assertività economica trova il suo limite lungo confini internazionali sempre meno porosi.

A complicare ulteriormente le cose resta il secondo punto, ovvero quello delle ricadute interne di questo passaggio epocale che mette a dura prova la tenuta del modello economico tedesco. Un modello che, nel quadro di una coerenza che per certi aspetti può essere fatta risalire sino al XIX secolo, richiede la simultanea salvaguardia delle sue differenti componenti: la stabilità dei flussi finanziari, un sistema manifatturiero di qualità, pace sociale e allineamento di interessi. Elementi che non possono essere separati gli uni dagli altri. La stabilità macroeconomica e la pace sociale sono entrambe necessarie a una programmazione a medio termine che mantenga il settore industriale competitivo e allo stesso tempo la competitività del settore industriale e la stabilità macroeconomica permettono la sostenibilità di un sistema di Welfare – cruciale per il mantenimento della pace sociale – che gli scossoni degli ultimi due decenni hanno iniziato a mettere alla prova. Se due di questi pilastri – stabilità macroeconomica e produzione industriale – iniziano a vacillare sotto i colpi della crisi energetica e dell’instabilità globale, va da sé che anche il tema della pace sociale torni al centro dell’agenda politica. Non va poi dimenticato quanto anche il sistema politico tedesco, per anni strutturato su una competizione simil-bipolare, con la Fdp a fare da pivot, abbia perso alcuni dei suoi connotati tradizionali entrando in una fase di (relativa) instabilità e incertezza. Le difficoltà e le ambiguità della Ampel-Koalition ne sono in un certo senso lo specchio, così come la continuativa ascesa di AfD, tutt’altro che una meteora, non può che giovarsi del malcontento economico e sociale che serpeggia non più soltanto nelle regioni a Est della Germania.

Il realismo economicista tedesco, dunque, non è un vezzo, ma piuttosto una necessità di stabilità interna; perché il cambiamento in politica estera possa effettivamente attuarsi senza scossoni irrimediabili, qualcosa dovrà essere aggiustato anche sul piano interno. Non si sottovaluti, però, la forza della Germania. La crisi di bilancio è – se vogliamo – solo apparente, ovvero causata da una estrema rigidità auto-imposta dalla Schuldembrense che, sebbene non con semplicità, può eventualmente essere lasciata alle spalle. È però necessario che la classe politica tedesca non dimentichi che l’austerità finanziaria “in tempo di pace” – per come già Helmut Schmidt l’aveva concepita all’indomani della crisi petrolifera – dovrebbe servire proprio ad avere solidità e margine d’azione nei momenti di forte instabilità globale. Se il risultato è l’opposto, qualcosa bisogna chiedersi. Il futuro della Germania e con essa, non dimentichiamo, dell’Europa, potrà forse dipendere dalla capacità di tornare a distinguere mezzi e fini.