L’accordo di Parigi si basa soprattutto sulla reputazione e la forza dell’esempio e non prevede meccanismi sanzionatori che ne garantiscano l’efficacia. Il voltafaccia di Trump mostra quanto fragile sia la reputazione e la forza dell’esempio quando ci sia qualcuno sufficientemente arrogante o insipiente da andare contro l’opinione prevalente.

I primi commenti si sono concentrati sulle possibili conseguenze, sulle ragioni che potrebbero avere indotto Trump a questa scelta, sulle ragioni delle aziende e dei Paesi che si sono dichiarati contrari. Ma il dato essenziale è che Trump mostra la fragilità di un sistema completamente basato sull’esempio. A queste preoccupazioni si può rispondere ritornando all’idea di un impianto legislativo più forte, con trattati vincolanti che diventino parte di un diritto internazionale dotato di forza sanzionatoria. Se l’accordo di Parigi fosse stato una risoluzione dell’Onu, per Trump non sarebbe stato impossibile smantellarlo, ovviamente. Ma sarebbe stato politicamente meno indolore.

Ma il dualismo fra Stati Uniti e Russia, l’avanzata della potenza cinese, l’ondivago andamento della politica estera europea hanno mostrato – in molti altri ambiti, primo fra tutti la questione dell’immigrazione – che i sogni di un governo mondiale sono per l’appunto solo sogni, o forse incubi.

Una conseguenza immediata della decisione di Trump è il venir meno del finanziamento americano al fondo istituito per finanziare l’adattamento ai futuri cambiamenti climatici e la conversione a energie alternative dei Paesi in via di sviluppo: un risparmio tutto a spese delle generazioni future, ma anche un sicuro danno per il mercato delle energie rinnovabili. E questo forse spiega la contrarietà della Cina, che a questo mercato guarda, e di molte aziende energetiche statunitensi.

La decisione di Trump mostra che il problema è economico. Forse anche per questo bisognerebbe fare maggiore attenzione alla proposta recente di John Broome (professore emerito di Oxford) e Duncan K. Foley (professore alla New School for Social Research di New York). Trump non vuole che i cittadini americani facciano sacrifici – in termini di bilancio nazionale e stile di vita – per garantire alle generazioni future un mondo meno soggetto agli effetti avversi del cambiamento climatico. Forse, però, sostengono Broome e Foley, si possono abbattere le emissioni senza alcun sacrificio – né per le generazioni presenti, né per quelle future. Il ragionamento è il seguente. Per contenere le emissioni, bisognerebbe privilegiare forme di produzione energetica che non si basino su combustibili fossili. A livello macroeconomico, bisognerebbe convincere i risparmiatori a investire su queste forme di produzione. A livello microeconomico, bisognerebbe stimolare i consumatori a comprare i prodotti che ne derivano. Entrambe sono scelte costose. Per stimolarle servono specifiche politiche economiche – agevolazioni fiscali, una carbon tax, prezzi calmierati per prodotti che non sfruttano i combustibili fossili. Per i governi realizzare politiche del genere è difficile, come mostra Trump.

Ma forse, suggeriscono Broome e Foley, i governanti potrebbero ricorrere a una forma di debito pubblico: potrebbero rilasciare una sorta di «obbligazioni climatiche», chiedendo ai risparmiatori privati il denaro necessario a finanziare investimenti nelle tecnologie rinnovabili e a compensare scelte individuali di consumo più sostenibili – con agevolazioni, buoni e forme varie di sostegno economico. Ovviamente, il debito così contratto verrebbe passato ai futuri governi e quindi ai futuri cittadini. Ma, pensano Broome e Foley, non è detto che tutto questo sia inefficiente. Le generazioni presenti lasciano ai posteri danni – i danni del cambiamento climatico – e benefici – sotto forma di capitale convenzionale (strade, città, infrastrutture, tecnologie) e capitale naturale (tutte le risorse naturali che non vengono usate). Trasferendo una parte dei loro investimenti al finanziamento del debito pubblico, le generazioni presenti ridurrebbero la quota di capitale convenzionale lasciata in eredità alle generazioni future. Ma, assumendo che la crescita economica e il progresso tecnologico continuino nel futuro (un’assunzione piuttosto plausibile), le generazioni future, che sarebbero più ricche e tecnologicamente avanzate di quelle presenti, non verrebbero molto danneggiate da questo mancato introito – da questa mancata eredità. E, in cambio, godrebbero il sostanziale beneficio di un mondo più pulito e meno soggetto ai pericoli del cambiamento climatico. La cosa sarebbe un vantaggio per tutti: le generazioni presenti realizzerebbero un risparmio – potrebbero finanziare misure di abbattimento delle emissioni a un prezzo più basso – e le generazioni future avrebbero il guadagno di vivere in mondo più ricco di risorse naturali e più pulito – e pagare il debito dei loro predecessori non sarebbe gravoso, per loro, data la loro maggiore ricchezza.

Per sostenere questa proposta – un’idea piuttosto controcorrente rispetto al senso comune attuale, che vede negativamente il debito pubblico – Broome e Foley propongono una nuova istituzione finanziaria, resa necessaria dalla lunga durata di queste obbligazioni (che dovrebbero coprire investimenti estesi per almeno due secoli, se si vuole ottenere qualche risultato): una banca mondiale del clima. La banca potrebbe gestire i tassi d’interesse delle obbligazioni emesse dai governi, attingendo il gettito necessario in due modi: o incamerando direttamente i proventi della carbon tax o della vendita di permessi di emissione, oppure attingendo direttamente al gettito dei governi, che poi potrebbero prendere in prestito capitali da questa specie di fondo comune – magari con tassi d’interesse differenziati a seconda dell’esposizione del Paese richiedente agli effetti futuri del cambiamento climatico. La banca mondiale del clima non sarebbe molto diversa rispetto alla Banca mondiale attualmente esistente. Per evitare defezioni unilaterali, si potrebbe stabilire che far parte della banca mondiale del clima sia condizione per partecipare ad altre istituzioni finanziarie come il Wto, il Fondo monetario internazionale e la stessa Banca mondiale.

Il succo della proposta di Broome e Foley, dunque, è questo: solo un mutamento del mercato – o meglio delle istituzioni del mercato finanziario – può dare ai governi la leva per stimolare una nuova economia e, tramite questa, incentivare l’abbattimento delle emissioni. La strada per il contenimento del cambiamento climatico passa per il mercato, non per la politica – o meglio il mercato può dare alla politica il coraggio che politici come Trump, da soli, non avranno mai.