Le preoccupazioni di Gianfranco Viesti sul Pnrr vertono intorno a tre temi di fondo: manca una visione su come potrà essere l’Italia del futuro, né c’è un’idea di politica industriale; il sistema Paese nel suo complesso, dalle Pubbliche amministrazioni ai sindaci, non è attrezzato per utilizzare al meglio la grande opportunità e l’enorme mole di risorse che arrivano dall’Europa; sia per come è stato impostato, sia per come nei fatti verrà a realizzarsi, il Pnrr può rischiare addirittura di aggravare i divari territoriali, alla fine, anziché ridurli (contravvenendo così a uno dei suoi obiettivi fondamentali).

Mi sembra che siano preoccupazioni condivisibili e, peraltro, in qualche modo collegate. Alcuni segmenti del nostro apparato amministrativo appaiono meglio preparati di altri: le grandi amministrazioni del Nord, da Milano a Bologna, sono meglio attrezzate dei grandi comuni del Mezzogiorno (calzante è l’esempio di Napoli, nell’articolo di Viesti) o anche dei piccoli comuni del Centro-Nord, e questo potrebbe in effetti finire per aumentare i divari territoriali (sia fra Nord e Sud, sia nel Settentrione fra centri e aree marginali).

L’assenza di una visione complessiva, e di una strategia conseguente, ha condotto a impostare in modo superficiale o errato le azioni per ridurre i divari territoriali, ad esempio nel campo dell’istruzione, con conseguenti minori benefici per le aree più deboli; ma ha portato anche a sottovalutare il tema, davvero cruciale, dell’ammodernamento e rafforzamento della nostra Pubblica amministrazione. La convinzione che non sia necessaria una politica industriale a monte, o che gli investimenti e i sussidi debbano essere «neutrali» rispetto alle scelte delle imprese, muove dalla stessa visione (è il mercato a risolvere tutti i problemi) che spinge o ha spinto in questi anni a trattare con diffidenza, a dir poco, chi metteva giustamente in guardia sui pericoli di una Pubblica amministrazione non soltanto inefficiente per via di norme inadeguate, ma in molte aree sottodimensionata, poco pagata, e in generale non abituata e quindi impreparata a programmare lo sviluppo.

Una breve ricostruzione dell’iter con cui i governi italiani hanno impostato il Piano nazionale di ripresa e resilienza conferma queste preoccupazioni e aiuta forse a collocarle in un quadro più ampio: l’inadeguatezza delle classi dirigenti italiane, politiche e amministrative, rispetto ai tempi nuovi che stiamo vivendo e alla sfida di politica economica che abbiamo davanti. La sfida cioè di mettere in campo investimenti ambiziosi, ed efficaci, per realizzare la transizione energetica e ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali.

Viesti osserva che la prima stesura del Pnrr, durante il governo Conte II, è avvenuta «nelle chiuse stanze dei ministeri». Dopo l’approvazione in Europa del Next Generation Eu, a luglio 2020, sono in effetti seguiti quattro mesi (da agosto a novembre) in cui non è stato possibile conoscere, non soltanto alla più vasta opinione pubblica e ai «tanti saperi disponibili» nella società e nel mondo della ricerca, ma nemmeno alle forze politiche della maggioranza (chi scrive era allora responsabile Economia di uno dei due principali partiti) quali progetti i singoli ministeri, sotto la regia del governo che aveva di fatto imposto la segretezza, e probabilmente in raccordo con le principali imprese pubbliche e con Cassa depositi e prestiti, stessero inserendo nel Pnrr. Di più. Non si sapeva con precisione nemmeno quali fossero le principali missioni del Piano, ciascuna comprendente un certo numero di progetti, e quale il budget loro destinato, né quali fossero i criteri di ripartizione a monte (e se c’erano).

A voler tentare una giustificazione per questa scelta a monte, si può ipotizzare che il governo Conte temesse quel che giornalisticamente usa definirsi «assalto alla diligenza», cioè l’arrivo di una serie di richieste a pioggia nei più disparati ambiti; e che fosse consapevole, al contempo, del fatto che l’amministrazione pubblica non era nelle condizioni di fare fronte all’ambiziosa opera di programmazione e realizzazione che ne sarebbe risultata. Di conseguenza, l’esecutivo ha preferito ripiegare sui finanziamenti alle grandi imprese pubbliche (che in buona parte quella capacità di progettazione e attuazione ancora ce l’hanno), sulla messa a terra di progetti giacenti da tempo nei cassetti dell’amministrazione ordinaria (e ora riprogrammati a minori costi e con tempi più cogenti), su una corposa mole di bonus orizzontali alle imprese private e ai cittadini (bonus che bypassano per definizione l’intermediazione della pubblica amministrazione).

Si è persa un’occasione importante per discutere con il Paese su quali dovessero essere gli obiettivi del Pnrr, quali le aree di intervento, quali i modi per raggiungere i traguardi attesi senza disperdere risorse

Resta il fatto che si è persa un’occasione importante per discutere con il Paese e chiarire ai cittadini quali dovessero essere gli obiettivi del Pnrr, quali pertanto con precisione le aree di intervento, quali i modi per raggiungere i traguardi attesi senza disperdere risorse. Quelli, da luglio a novembre 2020, erano proprio i mesi in cui la strategia di sviluppo e l’idea di Paese dovevano emergere dalla discussione pubblica, e in cui sarebbe stato fondamentale riformare e rafforzare la nostra amministrazione, in vista della grande mole di investimenti e bandi da gestire di lì a poco: come peraltro evidenziato da diverse associazioni e centri studi, dai corpi intermedi, da alcune forze politiche anche della maggioranza.

I contenuti del Piano furono resi noti soltanto a inizio dicembre 2020. A quel punto è cominciata, per davvero, una discussione nel Paese e anche tra le forze politiche sul merito degli interventi, discussione che però si intrecciava ormai con le vicende della crisi di governo ed è stata per questo, non di rado, condotta in modo strumentale. Comunque, su quell’impianto originario una nuova versione del Pnrr è stata preparata durante il periodo natalizio, per merito soprattutto dei ministri dell’Economia (Gualtieri) e del Mezzogiorno (Provenzano): questa sarà poi in sostanza la versione del Pnrr presentata al Parlamento dal governo Conte II, nel gennaio 2021.

Su quella bozza, avrebbe dovuto svilupparsi un’ulteriore discussione nel Paese e con le forze sociali, magari scevra da opportunismi politici, in vista della versione definitiva da presentare alla Commissione europea qualche mese dopo. Sennonché subito dopo è caduto il governo. Quello nuovo, pur presieduto da una personalità del prestigio e del calibro di Mario Draghi, ma sostenuto da una maggioranza molto più ampia e variegata, ha a sua volta modificato il Pnrr, di nuovo però senza alcun confronto con le parti sociali: si è arrivati in questo modo alla versione definitiva, trasmessa alla Commissione europea il 30 aprile.

Come si può osservare dalla Tabella 1, i diversi cambiamenti intercorsi fra queste tre versioni hanno inficiato, oltre che evidentemente (in parte) sul merito dei progetti, sia sull’allocazione delle risorse fra le diverse missioni, sia sulla stessa impostazione e sull’ammontare del Piano. Nella versione definitiva del governo Conte II, la proposta eccede di quasi 15 miliardi l’ammontare complessivo di risorse europee assegnato all’Italia (196,6 miliardi) e questo perché è stato previsto un portafoglio più ampio di progetti da sottoporre al vaglio della Commissione, in modo da costituire un margine di sicurezza nell’eventualità in cui alcuni progetti non venissero approvati. Poi però, nella versione definitiva del governo Draghi, l’ammontare invece è addirittura inferiore, ma integrato da altri 30,6 miliardi di risorse nazionali (il cosiddetto «fondo complementare»).

Complessivamente, rispetto alla bozza originaria, le risorse per la sanità risultano significativamente aumentate, mentre si riducono un po’ quelle per la «rivoluzione verde e transizione ecologica» e per l’«inclusione e coesione». Aumentano anche, e significativamente, le somme stanziate per l’istruzione e la ricerca e quelle per le infrastrutture e la mobilità sostenibile. Da notare però che né l’istruzione e la ricerca, né la sanità sono missioni esplicitamente previste dall’Unione europea nel Next Generatio Eu; rientrerebbero quindi solo indirettamente nelle tre grandi direttrici del piano europeo, che sono invece la transizione ecologica, quella digitale e la coesione sociale. D’altra parte, questa più ampia articolazione in sei missioni esisteva sin dalla bozza originaria del piano, mai cambiata nella sua griglia di fondo.

Riassumendo, l’Italia ha quindi: 1) deciso di utilizzare le cospicue risorse europee per una gamma di interventi più ampia di quella, in linea di principio, prevista dall’Europa; 2) allocato queste risorse, fra le missioni e su singoli progetti, senza un confronto con la società civile e l’opinione pubblica, le forze sociali e gli esperti, se non in parte nella fase di passaggio dalla prima alla seconda bozza del Conte II; 3) in questa situazione di sostanziale opacità, e pur nel mantenimento della griglia originaria, modificato due volte il piano; 4) peraltro, passando per un cambio di governo che ha visto entrare in maggioranza quasi tutto l’arco parlamentare (e durante il quale il tasso di strumentalità delle posizioni in merito al Pnrr è di molto aumentato, come testimonia il dibattito sulla governance di quelle settimane).

Era plausibile che in queste condizioni maturasse una coerente visione strategica su quella che dovrebbe essere l’Italia del futuro? O che si potesse intravedere fra le pieghe del Pnrr un coerente disegno di politica industriale?

Era plausibile che in queste condizioni maturasse una coerente visione strategica su quella che dovrebbe essere l’Italia del futuro? O che si potesse intravedere fra le pieghe del Pnrr un coerente disegno di politica industriale? Tanto più che delle tre missioni del Pnrr almeno due, la transizione energetica e la coesione sociale e territoriale (cioè la lotta alle disuguaglianze), non sono affatto temi neutri, tra le forze politiche, ma discriminanti e dividenti: su cui i partiti al governo, fra loro e perfino al loro interno, hanno visioni diverse e spesso contrapposte. È naturale che, se questo era il quadro politico di fondo, sia prevalsa l’impostazione orientata alle riforme di struttura (benvenute), agli interventi a pioggia lungo una coperta quanto più estesa possibile, nella speranza che il mercato e l’effetto spinta di così tanti miliardi messi a terra riesca a fare il resto. Ma mettendo in secondo piano, o con il rischio addirittura di perdere, l’opportunità storica di ridurre le disuguaglianze nel nostro Paese, sociali e territoriali, o di far fare all’Italia un passo avanti significativo in una questione così cruciale come la transizione energetica. Nonostante tutto ciò, si può ritenere che il Pnrr, date se non altro le sue dimensioni, porterà molte cose positive all’Italia, in ogni caso. Ma l’impressione di fondo è che il Paese stia affrontando questa opportunità con una classe dirigente, e forse anche un’opinione pubblica, complessivamente non all’altezza dei tempi nuovi che pure si invocano.