Un altro domani. Indagine sulla violenza nelle relazioni affettive è l’ultimo documentario di Silvio Soldini, scritto e realizzato insieme a Cristiana Mainardi. E di un’indagine effettivamente si tratta, un’indagine in forma di film, rigorosa e sfaccettata. Frutto di un lungo lavoro di preparazione e osservazione nelle questure, nei centri antiviolenza, nelle case d’accoglienza, Un altro domani rende visibile la piaga della violenza di genere, che quotidianamente e in diverse forme viene inflitta alle donne nello spazio domestico. Lo fa con gli strumenti del cinema e della ricerca qualitativa, dando innanzitutto parola a chi la violenza la subisce, ma anche agli uomini che la perpetrano, insieme naturalmente a chi con impegno e dedizione prova ogni giorno a contrastarla.

È una ricca polifonia di voci e volti che scorre davanti agli occhi, persone che non vengono mai schiacciate a un semplice ruolo testimoniale o professionale, come dimostra l’attenzione alle emozioni che traspaiono dai racconti: laceranti e terribili quelle delle vittime, su cui torniamo tra poco, spesso contraddittorie e informi quelle degli uomini, ma anche la vivida passione per la giustizia e la riparazione del male che comunicano magistrati, forze dell’ordine, psicologhe e criminologhe.

Con grande intelligenza e sensibilità Soldini e Mainardi riescono a intessere un discorso che non sacrifica né la complessità analitica né l’empatia. E già questo segna una chiara discontinuità con uno sguardo televisivo e giornalistico al quale purtroppo siamo abituati: urlato, sciatto e omologato su una certa pornografia del dolore e della violenza. Un altro domani, invece, è costruito su scene sempre aperte alla dimensione relazionale, ad esempio nelle riprese con camera mobile dei colloqui tra psicologi e uomini che hanno intrapreso percorsi di trattamento. Il messaggio è chiaro: è solo dalla messa a nudo e discussione di sé e dal confronto vero con l’altro che si può pensare di cambiare e provare a redimere il proprio passato violento.

Il quadro che emerge dalla visione è insieme sconfortante e aperto a qualche luce di speranza, come sembra suggerire il titolo del film. Sconfortante per la consapevolezza di quanto la violenza domestica sia diffusa nella società italiana, permeando classi sociali e contesti territoriali differenti. Del resto, non passa settimana che la cronaca non riporti un caso di femminicidio, al punto che, come con altre tragedie reiterate alle quali siamo ormai abituati, subentra una sorta di assuefazione alla ferocia. E invece sappiamo bene che gli omicidi di donne da parte dei propri (ex) partner, amici, padri e parenti sono l’esito finale di un ciclo della violenza più ampio e sfaccettato, la punta dell’iceberg di un fenomeno più vasto e profondo. Basti pensare che nel 2021 sono state 11.771 le donne che hanno effettuato un accesso in Pronto soccorso con indicazione di violenza.

Il documentario si interroga e ci interroga sulla agghiacciante facilità con cui molti uomini trovano in fondo normale imporre relazioni affettive tossiche e pervase da violenza

In questo senso, il documentario si interroga e ci interroga sulla agghiacciante facilità con cui molti uomini trovano in fondo normale imporre relazioni affettive tossiche e pervase da violenza, sia essa fisica, psicologica, sessuale o economica. Un modello improntato al controllo sempre più totalizzante dell’altro, che appunto come in un regime totalitario si basa sul soffocamento delle alternative e delle libertà, se non sull’esercizio diretto della persecuzione e della tortura. L’agghiacciante normalità di una cultura patriarcale, anche in questo caso ben più vasta e radicata di quanto siamo disposti a riconoscere, che impedisce a molti uomini di considerare la donna come soggetto libero e autonomo, in quanto colloca il maschio in una posizione di potere considerato naturale, seppur spacciato ideologicamente per protezione (che poi è la protezione del padrone nei confronti di esseri subalterni e incapaci di autoregolarsi e decidere per sé).

In questa visione amore fa rima con proprietà, e nessuno è disposto a rinunciare facilmente alle proprie cose. In questo senso i racconti delle vittime – donne perseguitate da stalker, ragazze sequestrate e seviziate dai fidanzati, mogli ricattate e picchiate dai mariti – testimoniano non solo delle ferite fisiche e psicologiche di questo asfissiante modello patriarcale, ma anche della forza emancipatoria che scaturisce quando si riesce a spezzare queste relazioni malate, uscendo da quel ruolo di inferiorità imposta.

A metà del film gli autori ci portano a toccare un male così crudele e profondo da lasciare attonito lo spettatore. Il racconto di una madre costretta a sopravvivere al dolore insostenibile della scomparsa di una delle sue bambine, uccisa, per una sorta di assurda vendetta, dal padre e proprio compagno. O ancora la testimonianza di un’altra donna che porta il doppio peso di essere rimasta orfana a cinque anni della mamma, ammazzata davanti ai suoi occhi da un marito che non voleva accettare di essere stato lasciato. Ma anche in questi casi l’empatia riesce a sublimare il dolore in fondo incommensurabile nell’ammirazione per il lascito etico che queste donne coraggiose riescono a comunicare.

"È un inferno essere amati da chi non ama né la felicità, né la vita, né sé stesso, ma soltanto te". La citazione di Elsa Morante in esergo al film riassume bene questo accerchiamento e introduce al primo di una serie di momenti di decompressione, di cui il documentario è costellato. Un’accuratezza al dettaglio visivo che, grazie anche all’ottima fotografia di Sabina Bologna, spezza il prevalere del logos sull’immagine. In questi intermezzi, sulle musiche minimali di Mauro Pagani, vediamo delle splendide immagini di case e palazzi sul far della sera. Squarci lirici fatti di finestre illuminate, silhouette che lasciano appena intuire la vita che si svolge all’interno degli appartamenti, riflessi di storie private che noi, dall’esterno, possiamo solo immaginare. A conferma della capacità di Soldini di cambiare rimanendo sempre fedele al proprio cinema, tra fiction e documentario e tra generi ogni volta diversi, considerato che la presenza di scorci urbani, nei quali i personaggi vengono letteralmente immersi, è una costante dello sguardo del regista milanese (a partire dal primo film del 1990 L’aria serena dell’ovest, con il compianto Ivano Marescotti).

Come una laica preghiera, il documentario di Soldini e Mainardi ci invita a sperare e lottare per un altro domani. Un domani fatto di nuovi modelli di mascolinità, in cui trovano spazio l’educazione alle emozioni, alla loro espressione e gestione

Quali le luci di speranza a cui accennavo? Una è quella accesa da Alessandra Simone, una delle promotrici del film e ideatrice del protocollo Zeus, un modello di prevenzione già adottato da trentasei questure italiane. L’idea di fondo è semplice: intervenire prima che le cose degenerino, dando la possibilità al questore di ammonire chi manifesta comportamenti violenti in contesto domestico, anche se questi non hanno (ancora) dato luogo a reati o denunce; l’ammonito è invitato formalmente ad accedere a un percorso – gratuito – di riflessione sulle sue condotte moleste, ad esempio sulla difficoltà nel controllo della rabbia. Una sorta di cartellino giallo e di presa in carico che, a detta degli esperti, ha forte efficacia di avvertimento, controllo sociale e soprattutto riduzione dei rischi di reiterazione o escalation della violenza. Anche la vittima, naturalmente, viene informata della disponibilità di centri e servizi che possano fornirle supporto. Inutile, ma forse no, sottolineare che il nome del progetto evoca efficacemente il primo maltrattante noto e accettato dalla mitologia, a proposito di radicamento culturale del patriarcato.

Come una preghiera laica , il documentario di Soldini e Mainardi ci invita a sperare e lottare per un altro domani, fatto di nuovi modelli di mascolinità, in cui trovino spazio l’educazione alle emozioni, alla loro espressione e gestione (si pensi alla gelosia e all’abbandono), la sperimentazione di legami affettivi e d’amore su basi di reciprocità, una sessualità consapevole e non predatoria. Un domani in cui trovare la forza di emanciparsi da rapporti sui quali si è investito e creduto molto e per questo non se ne vuole riconoscere la natura tossica, perché la subalternità femminile e il controllo maschile continuano a essere accettati come un dato naturale della coppia, e chi denuncia finisce per essere stigmatizzato addossando alle vittime una sorta di corresponsabilità.

Ma anche un domani, e un presente, in cui ci siano istituzioni e aiuti per le donne maltrattate, perché i percorsi di denuncia ed emancipazione sono pesanti e ricadono sulle loro spalle, e troppo spesso le donne uccise per mano di mariti o compagni avevano già chiesto aiuto e tentato di liberarsi.