Il virus giustifica la limitazione della libertà di circolazione. È limitata all’immediatezza delle rispettive abitazioni (non tutte confortevoli o salubri), nel comune di residenza in Italia, nella sospensione dello spazio Schengen in Europa. Andiamo a riscattare i nostri studenti Erasmus, come se d’improvviso Madrid o Lione o Colonia fossero dei luoghi estranei, se non ostili. Ognuno deve tornare al proprio posto, come se ognuno di noi avesse un suo luogo naturale e non altri, in una società che sembra non vedere l’ora di chiudersi.

Quasi come un dettaglio secondario ‒ con un dibattito frettoloso zittito dalla presunta urgenza e necessità ‒ è passata la restaurazione (momentanea?) delle frontiere tra gli Stati nazionali. È la dimensione sognata dai cosiddetti sovranisti. Fino a ieri tale posizione vedeva un mondo liberal-democratico e progressista contrapporvisi con vigore. Oggi, di fronte alla cogenza del morbo, quel mondo ne prende atto, nella speranza di non essere di fronte a un cambiamento strutturale del modo di vivere che abbiamo ereditato da Altiero Spinelli.

Da un giorno all’altro, quello che consideravamo un valore fondamentale corre il rischio di finire tra parentesi. La mozione d’ordine sociale che il morbo impone trova consenso generalizzato nell’opinione pubblica. È una messa in riga che ricorda quella – epocale, qui non siamo a tanto – che vide il movimento dei lavoratori, che pure aveva discusso per settant'anni di internazionalismo proletario, votare i crediti di guerra non appena la patria chiamò, nel 1914. E così gli operai francesi andarono a sparare contro i tedeschi e viceversa. La ricreazione era finita.

L’articolo 16 della nostra Costituzione prevede che la libertà di movimento valga «salvo le limitazioni che la legge stabilisce per motivi di sanità o di sicurezza». Oggi è sospeso un diritto così basilare da non essere mai stato in discussione (per chi ha un passaporto comunitario). Ancora un mese fa sarebbe stata una distopia che un italiano non fosse libero di scollinare l’Appennino. Molti hanno attaccato duramente Giorgio Agamben per la sua preoccupazione sulla vigenza oggi di uno «stato d'eccezione» e sui rischi per la democrazia in Europa prodotti dal Coronavirus. Alcune di queste critiche – penso a un articolo di Paolo Flores D’Arcais su «Micromega» – sono figlie di una cultura profondamente autoritaria che, di fronte al nemico esterno, obbliga a stringersi a coorte. Sui giornali, sui social, nel dibattito pubblico, invale improvvisamente un linguaggio militaresco. Siamo in guerra, si dice, e il virus è il nemico. I medici sono eroi (e lo sono), e chi si sottrae un disertore (ed è opinabile).

Oggi in Italia è l’opinione pubblica stessa, impaurita giustamente dal virus, a invocare maggior segregazione, più controlli, ulteriore coercizione per i presunti trasgressori. L’adesione di massa al dispositivo disciplinare della quarantena (che è un succedaneo del dispositivo securitario sull’immigrazione, sul quale è costruito il consenso delle destre, con le sinistre in continua difensiva) sta comportando fenomeni di delazione o di criminalizzazione per chi starebbe violando il decreto #iorestoacasa. La stigmatizzazione di quelli che per un motivo o per l’altro escono di casa, trattati come irresponsabili se non come veri e propri untori, ha dei tratti che ricordano quella dei sieropositivi al tempo dell'esplosione dell'Aids. Gli omosessuali, già oggetto di discriminazione, erano colpevolizzati per il male che era addebitato alla loro presunta devianza. «Le vite degli altri» sono sotto scrutinio. Il campione d’atletica Yeman Crippa, speranza olimpica azzurra, è stato denunciato dai vicini, e la costanza salutista dei podisti stigmatizzata dai più.

Alcuni governatori, non solo di destra, hanno preteso l’esercito in strada, non con funzioni ausiliarie nella lotta al morbo, come sarebbe ragionevole, ma per controllare i movimenti di una frazione della popolazione. I militari in strada, in democrazia, con funzione di ordine pubblico, restano una patologia della quale preoccuparsi, soprattutto di fronte alla crisi sociale ed economica, probabilmente la più grave della Repubblica, che non tarderà a esplodere e che già coinvolge milioni di precari e lavoratori informali.

Di fronte all’epidemia, l’imperativo di sorvegliare, e possibilmente punire, ottiene un consenso di massa. Sembra sfuggirci che l'epidemia, l’allarme, l’urgenza, la paura, così posti, rappresentano la realizzazione di un sogno autoritario, inducendoci a sottoporci volontariamente a misure coercitive. Di fronte alla crudeltà del morbo la risposta non può essere che unanime, immediata, urgente. Ma se non è tempo di pensare, resta solo il tempo di obbedire, che è sostanzialmente quello che stiamo facendo. L’ira delle autorità – e, a cascata, l’ira di molti cittadini – è convogliata contro pochi flâneur (costretti magari a vivere la quarantena in ambienti malsani), ai quali senza mezzi termini è addebitata la persistenza del contagio.

Solo con estrema fatica si è invece fatta strada la coscienza che, sino a oggi, al centro del cratere, nelle province di Milano, Brescia e Bergamo, mezzo milione di lavoratori sono stati costretti a muoversi, infettarsi e infettare per recarsi in fabbrica, in omaggio all’ideologia della produzione. Con estremo ritardo, in assenza di un confronto reale tra capitale e lavoro, da mercoledì 25 qualche fabbrica in più chiuderà. Difficile dire se sia stata una decisione tardiva del governo presieduto da Giuseppe Conte o una concessione di Confindustria.

Intanto tutti crediamo – o forse già solo speriamo – che qui e ora la quarantena sia necessaria come modo per tornare al più presto possibile alle nostre vite di prima. Ma come può la quarantena essere rappresentata come una mera misura di profilassi, che oggi vige e domani cadrà senza lasciare tracce? La quarantena di massa per il Covid19 è già ora il singolo evento biopolitico più importante della storia della Repubblica e non solo.

Domenica 22 marzo un miliardo di persone (né tutte uguali, né tutte sulla stessa barca) sono costrette nelle loro case, dalla favela della Rocinha a Río de Janeiro al Bosco verticale di Boeri a Milano. E qui vengo al punto. Il Coronavirus è davvero un evento eccezionale? O è solo il primo episodio tangibile in campo sanitario dell’ecocidio che stiamo già vivendo, e che in questo momento vede molteplici fenomeni drammatici, incluso l’inverno appena trascorso più caldo e siccitoso della storia (a febbraio in Italia +2,8 gradi e -80% di precipitazioni rispetto alla media), o la drammatica invasione delle locuste in Africa orientale?

Come per l’«acqua alta» a Venezia, moltiplicatasi come fenomeno negli ultimi anni, il Covid19 appare essere più un nuovo cedimento della biosfera che un evento eccezionale. La pandemia è destinata a durare molti mesi, secondo molteplici studi anche un paio d’anni. Sappiamo tutti che misure coercitive come la quarantena non sono sostenibili socialmente oltre un periodo di poche settimane. In quanto fenomeno destinato a ripetersi, nella stessa forma pandemica o in altre forme imprevedibili, è pensabile che le libertà fondamentali possano coesistere con urgenza, paura, pericolo di vita? O quelle libertà saranno vittime sacrificali, con il nostro consenso, in una nuova temperie storico-ambientale che non saprà più considerarle intangibili? È la pandemia il male assoluto al quale tutto è sacrificabile, mentre il modello economico vigente continua a non essere in discussione? Quanta parte dell’opinione pubblica, così incline oggi a obbedire (l’obbedienza è deresponsabilizzante), non considera un gran sacrificio rinunciare a pezzi di libertà?