Ogni anno, in tutte le scuole italiane, di solito nel mese di maggio, si celebra un rito collettivo che riguarda il calendario scolastico. Al Collegio docenti viene presentata la proposta del dirigente per l’anno successivo: oltre alle feste e alle pause previste dal calendario regionale, vengono aggiunti due o tre giorni concessi all’autonomia delle scuole. Inizia quindi la discussione. C’è chi vuole fare il “ponte” per la festa dell’Immacolata. Chi vuole farlo per il 25 aprile o per il primo maggio. Chi vuole addirittura mettere tutti i giorni possibili per fermarsi dal 25 aprile al primo maggio. Spettacolo non sempre edificante. La discussione riprende poi simile in Consiglio di istituto, l’organo che deve effettivamente approvare queste modifiche. Insomma, si dà un’aggiustatina al calendario aggiungendo qualche giorno in più di “sospensione della didattica”. Fenomeno in sé di poca rilevanza, se non per qualche malumore nelle famiglie dove i figli frequentano scuole diverse.

Quest’anno, all’improvviso, tutta l’Italia si trova a parlare della faccenda. Perché ci siamo accorti che questa gestione è caotica e per niente funzionale per la didattica? Nient’affatto. Perché una scuola di Pioltello, che avrebbe preferito rimanere sconosciuta, si è trovata in mezzo a una bufera per avere scelto uno di quei giorni di “sospensione dell’attività didattica” in coincidenza con la festa di conclusione del Ramadan. Per quello che si sa, il dirigente di quella scuola ha fatto più o meno quello che si fa ogni anno per definire la “quota di autonomia” del calendario. E ha reputato opportuno sospendere la didattica in occasione del termine del Ramadan, dal momento che una parte consistente della popolazione scolastica dell’istituto è di fede islamica, e quindi di fatto non va a scuola in quel giorno, svuotando le aule. Il Consiglio di istituto ha condiviso questo ragionamento, approvando la proposta.

Scandalo. “Le scuole non possono introdurre nuove festività”, ha dichiarato il ministro. Aggiungendo inoltre che le sospensioni dell’attività didattica devono avere “motivazioni didattiche”. E ha annunciato un intervento per chiarire la faccenda. L’intervento c’è stato: l’Ufficio scolastico regionale della Lombardia avrebbe chiesto al dirigente di ritirare il provvedimento, a causa di “irregolarità”. Non è chiaro quali siano queste irregolarità. Se riguardano la procedura (per esempio, un Consiglio di istituto convocato senza rispettare i tempi ecc.) sono cose che non riguardano la sostanza della decisione e si sanano con una nuova convocazione corretta. Resta comunque una grande perplessità su un intervento così tardivo, dal momento che la delibera sarà stata presa nel maggio o giugno scorso e si applica all’anno scolastico in corso. Se invece riguardano la sostanza della decisione, cioè che si tratti proprio di quel giorno e non di un altro, l’unica “irregolarità” potrebbe essere l’assenza di motivazioni didattiche. Se così fosse, però, si dovrebbero far saltare, tardivamente e ad anno scolastico quasi finito, le migliaia di decisioni simili prese da istituti che hanno deciso di “fare un ponte” qui o là. E poi si potrebbe sempre obiettare che in questo caso la motivazione didattica c’è: non far perdere un giorno di scuola agli alunni di religione islamica, che sarebbero comunque rimasti a casa. Va ricordato infatti che, per quel che si sa, la scuola in questione ha aggiunto al calendario un giorno per recuperare quello “sospeso” per il Ramadan.

Permettere agli alunni di religione islamica di non perdere un giorno di scuola ha a che fare con la libertà religiosa e insieme con il diritto all’istruzione, quindi con i principi generali che reggono una democrazia liberale

E con quest’ultimo punto si viene alle questioni di principio (democratiche). Permettere agli alunni di religione islamica di non perdere un giorno di scuola ha a che fare con la libertà religiosa e insieme con il diritto all’istruzione, quindi con i principi generali che reggono una democrazia liberale.

L’Islam mette spesso in tensione i principi della democrazia liberale, perché è una religione che esige un ampio riconoscimento pubblico, perché a volte ha delle pratiche che sembrano in contrasto con la democrazia, perché ne esistono varianti antidemocratiche intolleranti, anche molto aggressive, e perché le minoranze islamiche sono sempre più numerose in Europa. Una democrazia che non voglia tradire i suoi principi deve però fare chiarezza su questi e applicarli senza animosità, senza farsi trascinare da fumosi discorsi identitari né da paure di “islamizzazione” o miti simili.

Su questo terreno, due cose vanno chiarite: la libertà religiosa e la “laicità dello Stato”.

La libertà religiosa non è la tolleranza. La tolleranza è una virtù morale: io ho certi principi, incontro un’altra persona che ha principi diversi, la rispetto perché sopporto (tollero) questa differenza senza reagire in maniera violenta. La tolleranza è delle istituzioni solo quando queste non sono liberali: se lo Stato è confessionale, può tollerare confessioni o religioni diverse. Ma se lo Stato non è confessionale, quindi liberale, non dà nessuna priorità a una confessione o fede religiosa rispetto alle altre, e riconosce il diritto di tutti i cittadini di credere o non credere quello che vogliono (“ognuno è libero di andare all’inferno come vuole”, diceva Locke quando ancora si discuteva di tolleranza). La libertà religiosa è un diritto fondamentale, uno di quelli, per intenderci, che possono essere limitati solo per tutelare un altro diritto fondamentale, ma che altrimenti non possono essere limitati; e che non dipendono da maggioranze o minoranze.

Si può dire: bene, ognuno creda quello che vuole, ma che questa credenza rimanga privata e limitata alle occasioni di culto di quella comunità (libertà di culto) senza occupare lo spazio pubblico. Non è così facile. Questa posizione è stata tenuta a lungo dalle democrazie occidentali, creando però un evidente “doppio standard”. Per brevità, lo esemplifico così: la democrazia francese, per esempio, non è confessionale, quindi nella sfera pubblica e nelle istituzioni pubbliche non accetta segni religiosi. Tuttavia, numerose feste del calendario, non solo scolastico, sono di matrice cattolica e vicino alla scuola che frequento ogni giorno sento suonare le campane di una chiesa cattolica. Queste cose non si eliminano con un tratto di spugna, perché fanno parte di una stratificazione storica complessa. Quindi come se ne esce?

Va aggiunto che chiedere di limitare la libertà religiosa solo alla coscienza privata e al culto privato o nella comunità significa negare il carattere in sé pubblico di molte religioni, i cui credenti si sentono quindi non riconosciuti pienamente come cittadini, se gli è sottratta del tutto questa dimensione pubblica.

La “laicità dello Stato” è un principio profondamente democratico che si fonda sul rispetto del pluralismo religioso

A questo punto entra il tema della “laicità dello Stato”. Questa espressione viene usata di solito per designare la neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche. È un principio profondamente democratico, che si fonda sul rispetto del pluralismo religioso: se tra i cittadini convivono diverse fedi religiose, “egualmente libere” (art. 8 Cost.), le istituzioni pubbliche, che si impongono ai cittadini in quanto dietro di esse c’è il potere di coercizione dello Stato, non possono imporre un credo religioso.

Il principio di laicità può essere interpretato in due modi: o nel senso che le istituzioni pubbliche devono essere assolutamente spogliate di ogni riferimento religioso, e che chi vi entra, sia come comune cittadino che come funzionario, si spoglia della sua identità religiosa; o nel senso che, anche se le istituzioni non assumono nessun credo religioso, è possibile entrarvi parlando il linguaggio della propria religione (anche simbolicamente, per esempio con il vestiario). Il primo caso è il modello francese, e comporta per esempio il divieto dell’uso del velo a scuola; il secondo è quello inglese, o tedesco, o anche italiano, in cui non esistono divieti del genere.

Non ha importanza qui capire quale dei due modelli è più coerente dal punto di vista dei principi democratici. Nel caso dell’Italia, dobbiamo partire dal secondo, necessariamente, per due ragioni: la prima è che per tradizione culturale prevale in Italia questa interpretazione pluralista del principio di laicità, cioè si promuove l’espressione della religione nella sfera pubblica; la seconda è che nelle istituzioni pubbliche italiane è molto forte la presenza della religione cattolica, per ragioni storiche e istituzionali, che rende per definizione discriminatoria qualsiasi pretesa di limitare l’accesso alla sfera pubblica di altre religioni.

Da qui possiamo vedere qual è il modo più ragionevole per trattare il caso del Ramadan a scuola. Se vogliamo rispettare la libertà religiosa intesa anche come possibilità di accedere alla sfera pubblica e se vogliamo rispettare un’idea pluralista di laicità, non si possono rifiutare a priori le richieste delle comunità islamiche di poter rispettare il Ramadan a scuola. Bisogna garantire il diritto all’istruzione e insieme la libertà religiosa, senza violare il carattere laico delle istituzioni. Non è difficile, se si scelgono soluzioni pragmatiche e si abbandona l’idea di applicare in modo deduttivo dei principi astratti alla pratica quotidiana. Vediamo nello specifico i due casi che si pongono.

Il primo è quello del digiuno: in alcuni casi, gli alunni di fede islamica chiedono di praticare il digiuno durante il mese del Ramadan (o lo chiedono le loro famiglie). Nel caso delle scuole a tempo pieno, questo comporta due problemi: una frequenza di otto ore al giorno senza bere né mangiare può causare problemi di salute; inoltre, non è chiaro come gestire il momento della mensa. La soluzione può essere un accordo definito solo caso per caso: non è possibile rifiutare questa richiesta, perché sarebbe una violazione della libertà religiosa; si può fare un accordo con la famiglia per quel che riguarda la pausa mensa, l’alunno che digiuna può andare in un’aula con altri docenti, o può uscire e rientrare dopo la mensa se è possibile. Se l’alunno avesse problemi di salute a causa del digiuno questo potrebbe essere interrotto, lo prevedono le regole stesse del Ramadan; l’importante è accordarsi su questo con la famiglia.

Il secondo problema è quello emerso con la scuola di Pioltello: se una parte consistente della popolazione scolastica festeggia la fine del Ramadan, è una violazione della laicità dello Stato sospendere l’attività didattica? Lo sarebbe, se venisse introdotta una nuova festività; teniamo conto però che se si applicasse rigidamente questo criterio, cadrebbero anche tutte le feste cristiane e l’unica via d’uscita sarebbe tornare più o meno al calendario della Rivoluzione francese (senza però la Festa dell’Essere Supremo, altrimenti non se ne esce mai…). Ma in realtà questa decisione non viola affatto la laicità dello Stato perché per ragioni didattiche, cioè per garantire il diritto all’istruzione “a tutti” (art. 34 Cost.), ha soltanto introdotto un giorno di sospensione delle attività didattiche in un giorno diverso dal solito ponte. Anche questa è una soluzione pragmatica.