In questi giorni il governo ha comunicato le prime anticipazioni sul Piano per la scuola, un progetto di riforma che intende rivoluzionare il lavoro dei docenti. Un intervento deciso su questo terreno, che differenzi le retribuzioni non solo sulla base dell’anzianità di servizio, ma anche della qualità dell’impegno, è necessario. E la spinta riformatrice dell’esecutivo, in questo campo come negli altri, va sostenuta. Tuttavia, è pericolosissimo fare passi falsi, perché si rischia di suscitare nel corpo docenti una opposizione pregiudiziale, che impedirà poi la realizzazione di qualsiasi riforma. Purtroppo, è esattamente quello che sta accadendo.

Il governo sta impostando la cosa nel modo peggiore. Su un punto è completamente fuori strada. Viene infatti proposto di istituire “premi stipendiali fino al 30 per cento per i docenti impegnati in ruoli organizzativi (vicepresidi, docenti senior) o attività specializzate (lingue e informatica)” ("la Repubblica", 2 luglio). Ora, se il problema fondamentale della scuola italiana è migliorare la qualità della didattica, promuovere i docenti che insegnano meglio, incentivare chi lavora in situazioni di disagio sociale, con questo intervento si ottiene il risultato opposto. Per differenziare le retribuzioni sulla base del lavoro svolto, si decide di premiare solo chi assume incarichi di organizzazione o chi si dedica ad attività didattiche speciali. Intendiamoci, riconoscere questo tipo di lavoro è fondamentale. Ma riconoscere solo questo è deleterio. Infatti, in tal modo, verrà rafforzata una tendenza già troppo presente nella scuola: molti insegnanti, frustrati da un lavoro in aula non riconosciuto, o da rapporti con studenti sempre più difficili da trattare, già ora decidono di assumere incarichi di responsabilità, che sono visibili e riconosciuti, e trascurano l’insegnamento. Se si istituzionalizza un incentivo di questo genere, si darà un colpo definitivo alla possibilità di promuovere una didattica di qualità, e non si farà niente per impedire una didattica scadente.

Per qualificare il lavoro dei docenti, bisogna partire dal lavoro in aula. Aggrapparsi ai soli ruoli organizzativi è segno di pigrizia intellettuale, o, peggio, di indifferenza ai problemi reali della scuola. È facile valutare attività visibili e riconoscibili, mentre è molto più impegnativo pensare a un sistema di valutazione della didattica. Eppure la sfida è qui, e qui si trovano i veri tabù da infrangere. La prima cosa da proporre è che il lavoro d’aula dell’insegnante sia “aperto”, pubblico, accessibile alla conoscenza da parte di valutatori esterni e non chiuso in una specie di riserva privata in cui nessuno può mai entrare. Su questo è giusto affrontare l’eventuale opposizione dei docenti. In ogni caso, chi lavora nella scuola sa che sono sempre di più gli insegnanti disponibili a farsi valutare nella loro attività quotidiana, purché questo serva a riconoscerne il valore. Ebbene, tutte queste persone diventeranno (stanno diventando in questi giorni) dei nemici del governo e della riforma, perché penseranno: “A che cosa serve che io metta l’anima nel tempo che dedico ai miei allievi, alla preparazione delle lezioni, all’organizzazione del lavoro con loro, se poi vengono premiati quelli che dall’aula fuggono, se si ragiona sempre come se tutto questo lavoro didattico non esistesse, non avesse valore?”.

E non bisogna fermarsi di fronte alla critica prevedibile: “Ma come si fa? È difficile valutare l’attività didattica, questa valutazione rischia di diventare arbitraria ecc”. A questa critica bisogna rispondere nel modo più ovvio: per imparare a nuotare ci si butta in acqua. Intanto decidiamo di farlo, iniziamo. L’attività didattica in classe andrebbe valutata in diversi aspetti: la relazione che si instaura con gli studenti, la cooperazione che si riesce ad attivare con e tra loro, lo sviluppo delle loro competenze, le attività che essi svolgono e, ovviamente, le conoscenze che acquisiscono. Per fare tutto questo, è necessario che delle persone in carne e ossa entrino in contatto con altre persone in carne e ossa. Tradotto: i valutatori devono entrare nell’aula, osservare il lavoro del docente, intervistarlo, intervistare i ragazzi, raccogliere informazioni, e poi dare una valutazione. Esattamente come i docenti valutano i loro allievi, perché li conoscono.

Se si praticasse una valutazione di questo genere, l’avanzamento stipendiale potrebbe procedere non solo sulla base dell’anzianità di servizio, ma anche sulla base di tali valutazioni. Il miglioramento della didattica si ottiene non punendo, ma incentivando: chi non ha buoni voti, avanza solo per anzianità di servizio, più lentamente. Inoltre, se si accetta che la valutazione “sul terreno” è il metodo principale per migliorare la didattica, si può evitare un altro grave errore che emerge nella Piano per la scuola del governo: l’idea che per “far lavorare” gli insegnanti li si debba tenere a scuola 36 ore. Ora, un bravo insegnante che passa ore sui suoi libri e al computer per preparare le lezioni, elaborare materiali da sottoporre agli allievi, studiare (già, perché no?) e così via, se costretto a stare a scuola 36 ore, non avrà più il tempo per farlo. Si dirà che, però, molti insegnanti non fanno questo lavoro di preparazione e di studio. Vero, ma per portarli a farlo bisogna valutare la loro attività didattica, non costringerli a stare a scuola.

Il governo Renzi vuole mostrare coraggio, nei molti campi in cui ha intrapreso iniziative di riforma. Il coraggio però non è quello delle soluzioni a portata di mano, per quanto radicali. Il coraggio si mostra proponendo soluzioni ancora più radicali, perché più impegnative da realizzare, ma sicuramente più efficaci e più eque. Se anche questa volta si assisterà allo scontro frontale tra governo e docenti, come sempre il risultato sarà la paralisi, a spese degli studenti.