È il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Da qualche settimana Paola Cortellesi sbanca il botteghino con un film (anche) sulla violenza domestica. E poi c’è il dibattito pubblico sul femminicidio di Giulia Cecchettin, che ha avuto una ridefinizione da parte della sorella della vittima, Elena: “è stato il patriarcato”. Non c’è giornale o social che non metta in bocca questa parola (magari per negarne l’esistenza) a persone che mai ci saremmo aspettati potessero pronunciarla. Non è solo una questione di linguaggio, ma di lettura: si è passati dal personale al politico. L’uccisione delle donne va letta entro un sistema. Ciò non toglie responsabilità agli autori, ma questa responsabilità porta i correlati di una cultura e di una struttura. Nello specifico, una cultura misogina e una struttura di potere.

Il Paese ha dato un segnale inequivocabile: col successo cinematografico del film, col rilancio delle parole di Elena Cecchettin, con le imponenti manifestazioni che ci sono state e che oggi stesso ci saranno, organizzate da Non Una Di Meno. La parola che più ricorre è prevenzione, il tema che più si richiama è l’educazione all’affettività e alla sessualità, il contesto più chiamato in causa la scuola. Il ministero dell’Istruzione e del merito si è allineato al Paese? Difficile rispondere positivamente. Il ministro Valditara ha presentato questa settimana la direttiva (che in quanto tale non ha valore prescrittivo) sul progetto “Educare alle relazioni”, annunciata dallo scorso settembre, che fa seguito al protocollo di intesa ("Prevenzione e contrasto della violenza maschile nei confronti delle donne e della violenza domestica, iniziative rivolte al mondo della scuola"). Il piano prevede una serie di gruppi di discussione in orario extracurricolare da attuarsi con un insegnante che fa da moderatore, ma solo se tutti i genitori e gli studenti daranno il loro consenso. La direttiva menziona su questo anche il Forum nazionale delle associazioni dei genitori della scuola (Fonags) affinché aggiusti i percorsi progettuali attraverso «osservazioni migliorative delle rappresentanze dei genitori». Il progetto partirà in via sperimentale con le scuole secondarie di secondo grado e su questo verranno investiti 15 milioni di euro (denari pubblici).

Il ministro Valditara ha presentato questa settimana la direttiva sul progetto “Educare alle relazioni”. Così facendo si è allineato al Paese? Difficile rispondere positivamente

Vari sono gli elementi di debolezza di un simile impianto. Il fatto di essere extracurricolare e facoltativo e il dover sottostare alla volontà delle famiglie rischia naturalmente di far piovere sul bagnato nei contesti già sensibili, e di lasciare asciutti quei territori e ambienti che probabilmente ne avrebbero più bisogno, dato il chiaro effetto di autoselezione che ogni attività facoltativa implica. Generica è lasciata la questione della formazione dei docenti, che invece è fondamentale; generica la questione del coinvolgimento delle famiglie, richiamate nel piano più come soggetti che devono “controllare” questo tipo di intervento, a salvaguardare la priorità (che non è esclusività) della famiglia in tema di educazione, anziché anche come alleate in una visione integrata dell’educazione, e perché no utenti finali da sensibilizzare. Le famiglie ne avrebbero bisogno più dei ragazzi e delle ragazze stessi.

Senza entrare nel merito delle figure esperte che il ministro ha scelto per la stesura di questa piano (del caso del consulente Amadori si è già ampiamente parlato nel dibattito pubblico), colpisce il fatto che venga chiamato in causa esplicitamente il Fonags e non per esempio le associazioni della rete antiviolenza. Eppure, la rete Dire aveva inviato una lettera molto chiara al ministero, il 31 agosto scorso, che sostanzialmente diceva: eccoci, siamo qua siamo a tua disposizione perché da anni facciamo un lavoro fondamentale su questo tema, sensibilizzando insegnanti e studenti, e lavorando a contatto col problema con le competenze di chi lo tratta individualmente ma lo conosce culturalmente. Che ne parla in termini di violenza di genere, esattamente come fa la Convenzione di Istanbul, come fa l’Oms, come fanno gli organismi scientifici e la ricerca accademica.

Qui veniamo al punto più importante, alla carenza più manifesta della proposta di Valditara: il piano parla di educare alle relazioni, ma non parla di educazione di genere. Ebbene, non si può pensare di contrastare la violenza di genere senza parlare di genere. Sembra un po' banale, ma evidentemente non è recepito dal ministero, a meno di non pensare che tutte le uccisioni di donne che si verificano oggi in Italia a opera di partner o ex partner siano l’esclusivo effetto di malattie psichiatriche isolate. Se così fosse, stanti le attuali statistiche sulla salute mentale disaggregate per genere, dovremmo avere almeno tante donne quanti uomini che gettano l'acido in faccia ai loro (ex) partner, sparano loro, li investono con la macchina. Il Paese la chiama già violenza di genere, il governo dovrebbe finalmente adeguarsi a questo. Evitarlo (pur di evitare la fantomatica “teoria gender”, perché è di questo che si tratta: la paura di parlare di omosessualità e di famiglie omogenitoriali a scuola, quella è la questione ultima) vuol dire partorire il topolino, come è stato osservato da Chiara Sità, ma su questo investire pubblico denaro.

La disuguaglianza di genere che caratterizza il nostro Paese rispetto ad altri in Europa, ribadita proprio dalle ultime statistiche Istat, è strettamente collegata alla distribuzione di potere, al sessismo, alle discriminazioni e alle vessazioni che le donne conoscono dentro e fuori le mura di casa. La violenza nella vita quotidiana non è un fenomeno dicotomico 0/1, è in un continuum. E quella di genere nasce dal sessismo quotidiano dei nostri atteggiamenti, passa per le piccole vessazioni simboliche e materiali, fino a quelle più sistemiche e istituzionali. Se il genere ha una dimensione individuale, interazionale e culturale, per dirla con la sociologa Barbara Risman, allora anche la violenza di genere ce l’ha, perché si fonda sulle disuguaglianze di potere che il genere come sistema di attese sociali sul maschile e sul femminile comporta. Oltre a non essere allineato al Paese, la proposta del ministro non appare nemmeno allineata con quanto dichiarato dall'Organizzazione mondiale della sanità, per esempio, che ribadisce che l'educazione alla sessualità debba essere olistica, iniziare anche prima dei 4 anni, naturalmente in maniera proporzionale in relazione all'età. Ed è la stessa educazione richiesta dall'Oms che chiama in causa la questione di genere: “L’educazione sessuale poggia saldamente sui principi di equità di genere, autodeterminazione e accettazione della diversità […]. L’educazione sessuale inizia alla nascita [e] deve essere intesa come un contributo verso una società giusta e solidale. [Essa] persegue i seguenti risultati. 1. Contribuire a un clima sociale di tolleranza, apertura e rispetto verso la sessualità e verso stili di vita, atteggiamenti e valori differenti. 2. Rispettare la diversità sessuale e le differenze di genere, essere consapevoli dell’identità sessuale e dei ruoli di genere”. Né è in linea con una ampia letteratura che sostiene l’integrazione dell’educazione di genere nei programmi di prevenzione della violenza e in generale nell’educazione alla sessualità.

Possiamo davvero pensare di educare al fallimento senza fare riferimento alla difficoltà che i maschi hanno di gestirlo più delle femmine, per il modo in cui sono generalmente socializzati?

D’altra parte, possiamo davvero pensare di educare al fallimento, come invocato da alcuni esponenti dei partiti di governo in questi giorni, senza fare riferimento alla difficoltà che i maschi hanno di gestirlo più delle femmine, per il modo in cui sono generalmente socializzati? Possiamo educare al rispetto della libertà altrui senza considerare in che modo differenziato maschi e femmine si relazionano al possesso nella relazione intima, o senza parlare della doppia morale o del doppio standard? Ragazzi e ragazze sono spesso intrisi di una cultura che non sa distinguere gelosia e possesso, ce lo dicono tanti “lucchetti degli innamorati” sui ponti (quale simbolo più sbagliato di intendere la libertà e la relazione di coppia come plebiscito di tutti i giorni?). Il legame d’amore fusionale e appropriativo e il suo dover essere per sempre bastando a se stesso, non è che la radice del “la coppia ti basta, non hai bisogno di uscire con le amiche”, “perché aspiri al lavoro o allo studio, non ti basta stare con me?” o dello “tu stai con me anche se non vuoi perché io sennò soffro”. E se quell’“io” che parla è un maschile non educato alla propria vulnerabilità, cresciuto coi “non piangere, non fare la femminuccia” o “non fare il frocio”, se è un “io” che pretende dal femminile di essere servito anche psicologicamente, se quel “tu” è un femminile socializzato a prendersi cura delle emozioni altrui più che delle proprie, a pensarsi oggetto di desiderio e non soggetto, a non autorizzarsi alla priorità del proprio consenso, allora è sulla cultura di genere che bisogna lavorare, dagli stereotipi alla decostruzione dei significati. Tante ragazze, tanti ragazzi amano serie tv, canzoni, una letteratura che parla loro dello stalking o della violenza come segnali d’amore, di passione dell’altro, romanticizzando le scenate di gelosia o la persecuzione di lui come passione per lei. Ma tutto questo si innesta in una dimensione di genere segnata dal privilegio. Se nel film di Cortellesi Ivano picchia Delia perché ha fatto cadere i pasticcini, dicendole “Neanche la serva sai fare”, non è soltanto perché è incapace di gestire la rabbia, come una generica educazione alle emozioni o alle relazioni suggerirebbe, ma perché ritiene che lei lo debba servire, in virtù di un privilegio di genere e di una visione dell’uomo e della donna fondata su una complementarità asimmetrica in cui lei è a disposizione di lui. Se un ragazzo controlla il modo di vestire della propria ragazza o le impedisce di uscire con le amiche, e alla fine è violento con lei, non è solo perché non sa gestire la rabbia: quella rabbia deriva da una certa idea di cosa sia una donna e del suo spazio di azione, di una cultura che lega la femminilità all’istinto, che fa di una donna un corpo, un soggetto dalla minore forza morale che va raddrizzato, contenuto, semmai punito.

Donne, asini e noci vogliono mani atroci, diceva il detto. La rabbia e la frustrazione dell’idea, umiliante, che la propria vulnerabilità sia nelle mani di un essere che in fondo è costruito come inferiore (“non lasciarmi, solo tu mi puoi salvare”) fanno ricadere la responsabilità del proprio dolore sull’altro. Un altro del cui desiderio non ci curiamo. E se per i tanti “lui” la sofferenza è ingestibile, è anche perché tanti “lui” sono stati socializzati a reprimerla e a mostrare la parte forte di se stessi. Lui prestazione, lei relazione. Sempre questo è il ricatto della socializzazione di genere, dai giochi di guerra per lui alle bambole per lei, un ricatto che ha radici lontane e che pesa per entrambi.

Quest'anno cadono i cinquant’anni di Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti. Un libro che ha segnato un prima e un dopo negli studi sulla socializzazione di genere; e un prima e un dopo per molte persone che l’hanno letto e che come ogni classico, ha ancora molto da dirci. Vale la pena di chiudere proprio con un passaggio di quel libro (p. 22):

“Da lui ci si aspetta che diventi un individuo, è considerato per quello che sarà. Dalla femmina ci si aspetta che diventi un oggetto, ed è considerata per quello che darà. Due destini del tutto diversi. Il primo implica la possibilità di utilizzare tutte le risorse personali, ambientali e altrui per realizzarsi, è il lasciapassare per il futuro, è il benestare per l'egoismo. Il secondo prevede la rinuncia alle aspirazioni personali e l’interiorizzazione delle proprie energie perché altri possano attingervi. Il mondo si regge proprio sulle compresse energie femminili, che sono lì, come un grande serbatoio, a disposizione di coloro che impiegano le proprie per inseguire ambizioni di potenza”.