«Che contrasto! Che brusco passaggio! La gerarchia, la disciplina, l’ordine che l’autorità s’incarica di assicurare, i dogmi che regolano fermamente la vita: ecco ciò che amavano gli uomini del Seicento. Le costrizioni, l’autorità, i dogmi: ecco ciò che detestano gli uomini del Settecento […]. I primi sono cristiani, gli altri anticristiani; i primi credono al diritto divino, gli altri al diritto naturale; i primi vivono a loro agio in una società divisa in classi ineguali, i secondi non sognano che uguaglianza». Così si apre la prefazione del celebre saggio – La Crise de la conscience européenne, 1680-1715 (Boivin, 1935); trad. it. La crisi della coscienza europea (Einaudi, 1946) – che Paul Hazard dedicò ai tre o quattro decenni che, dopo un secolo e mezzo di guerre di religione, prepararono l’Illuminismo.

Hazard scrive attorno alla metà del trentennio compreso tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Gli eventi di quegli anni stimolarono una profonda revisione dell’assetto politico-economico delle società occidentali, che nel trentennio successivo sorresse crescita rapidissima e relativamente stabile e inclusiva. Negli anni Settanta la singolare coesistenza di ristagno e inflazione aprì la strada alla dottrina neoliberale, che secondo molti contribuì sia all’aumento delle disuguaglianze e dell’instabilità sia al rallentamento della produttività e della crescita. Ma sinora la crisi del 2008, che ha reso manifesti alcuni difetti di quella dottrina, non ha prodotto una revisione comparabile.

Negli anni Settanta la singolare coesistenza di ristagno e inflazione aprì la strada alla dottrina neoliberale, che secondo molti contribuì sia all’aumento delle disuguaglianze sia al rallentamento della produttività

Hazard chiude la sua prefazione con un giudizio netto: «Le forze che dirigono e governano la vita non sono quelle materiali, ma le forze intellettuali e morali». Non occorre condividerlo per credere che le idee contribuiscano ai cambiamenti sociali. Ma affinché le idee si battano nell’arena pubblica bisogna riassumerle, catalogarle: ed è verosimile che la difficoltà di definire il neoliberalismo ne abbia ostacolato la critica.

È questo il tema che il direttore di questa rivista, Mario Ricciardi, affronta in un recente articolo sull’inserto Politica del quotidiano «Domani». Chiariti i limiti di ogni definizione rigida di tendenze politiche o culturali, egli osserva che resta possibile darne definizioni aperte: «generalizzazioni» adatte alla discussione pubblica. Per dare un senso maneggiabile al neoliberalismo Ricciardi richiama l’analisi di Quinn Slobodian, e si sofferma soprattutto sull’intenzione dei (primi) neoliberali di «incapsulare» i mercati dentro «gabbie normative» capaci di proteggerli dal variare delle maggioranze parlamentari e delle preferenze degli elettorati, con l’effetto di deprimere la capacità delle democrazie occidentali di rispondere al malfunzionamento dei mercati. Questo, conclude Ricciardi, è «un problema la cui soluzione è vitale per il futuro della democrazia».

La soluzione non pare imminente, perché il neoliberalismo conserva non poca influenza – anche in Italia, come attesta il (povero) dibattito che si svolge nel Pd. E una ragione è forse la natura composita di quella visione, che emerge bene da altre due definizioni. Una polemica e una assiologicamente più neutrale, entrambe indirettamente indicano anche una linea per aggredire i difetti del neoliberalismo.

La definizione polemica non proviene dalla sinistra socialista ma da Francis Fukuyama, che nel suo ultimo libro – Liberalism and Its Discontents (Farrar, Straus and Giroux, 2022); trad. it. Il liberalismo e i suoi oppositori (Feltrinelli, 2022) – separa il «liberalismo classico» dal neoliberalismo per proteggere il primo dalle critiche che piovono sul secondo. Ne ho già parlato sulla rivista – Liberalismo e libertà, «il Mulino», n. 3/2022  – e mi limiterò a un accenno. Nei decenni scorsi, sostiene Fukuyama, sia a destra sia a sinistra il liberalismo è stato spinto a «estremi» indesiderabili. Il mercato fu «venerato» e lo Stato «demonizzato» come il nemico della crescita economica e della libertà individuale; la deregulation dei mercati finanziari li «destabilizzò», provocando la crisi del 2008; la spesa sociale fu compressa; le altre politiche che proteggevano la società dalle oscillazioni del mercato furono affievolite; e le disuguaglianze crebbero fortemente. La destra, insomma, condusse la libertà economica «a estremi insostenibili». La sinistra invece spinse l’autonomia e la libertà di scelta dell’individuo, «min[ando] l’autorità di molte culture tradizionali e istituzioni religiose».

La convivenza tra queste aspirazioni e l’anima libero-mercatista del neoliberalismo è meglio discussa nell’analisi che uno storico americanista, Gary Gerstle, ha dedicato all’ascesa e alla caduta dell’«ordine politico neoliberale» negli Stati Uniti (The Rise and Fall of the Neoliberal Order: America and the World in the Free Market Era, Oxford University Press, 2022). La nozione di «ordine politico» è centrale in questa analisi, ma la lascerei alla più ampia recensione che il libro merita: qui mi limiterò alla definizione.

«Il neoliberalismo è un credo [creed] che apprezza il libero mercato e il libero movimento del capitale, dei beni e delle persone. Celebra la deregulation [affinché] i governi non possano più interferire nel funzionamento dei mercati. Valorizza il cosmopolitismo[,] l’apertura delle frontiere [e il] mescolarsi di grandi numeri di persone differenti. Vede nella globalizzazione un fenomeno win-win, che insieme arricchisce l’Occidente [e] reca al resto del mondo livelli di prosperità senza precedenti» (p. 5).

Ma il neoliberalismo non fu solo un progetto delle élites per favorire l’accumulazione capitalista e oscurare le questioni della distribuzione del reddito e dell’uguaglianza. Nel neoliberalismo c’è anche una promessa di emancipazione, sostiene Gerstle, che è figlia sia del liberalismo classico e della sua lotta per la libertà individuale, sia della rivolta della «nuova sinistra» statunitense contro la burocratizzazione della società portata dal New Deal e contro il complesso militare-industriale favorito dalla Guerra fredda. La celebrazione della diversità, della creatività, dell’emancipazione individuale, anche della «spontaneità» – che secondo Hayek è «l’essenza della libertà» (p. 98) – sono tratti fondanti del neoliberalismo, che spiegano sia il sostegno che raccolse anche a sinistra, sia la sua compatibilità con le istanze di liberazione fondate sull’identità di genere, l’orientamento sessuale o il colore della pelle. Senza tenerne conto, conclude Gerstle, è difficile spiegarsi la duratura egemonia del neoliberalismo.

E ciò soprattutto quando si consideri che – come nota Bradford DeLong in un libro che è utile giustapporre a quello di Gerstle (Slouching Towards Utopia: An Economic History of the Twentieth Century, Basic Books, 2022) – già alla fine degli anni Ottanta era chiaro che il neoliberalismo, pur avendo ridotto l’inflazione, non era riuscito a generare prestazioni economiche superiori a quelle del New Deal. DeLong infatti si chiede perché l’era neoliberale durò tanto. La sua risposta è diversa da quella di Gerstle, e altrettanto interessante: ma è difficile credere che la natura proteiforme del neoliberalismo, nella quale anche istanze di sinistra trovavano risposte convincenti, non sia parte della spiegazione.

Per le medesime ragioni, anche nell’arena pubblica difficilmente una critica credibile del neoliberalismo potrà esimersi dal distinguere le sue componenti le une dalle altre, indicando quali sono da prendere e quali da lasciare. Un’operazione speculare a quella dell’amministrazione Trump, del resto, che ha avversato il cosmopolitismo, il multiculturalismo, l’immigrazione, la globalizzazione e la disciplina di bilancio, ma ha proceduto sulla via della deregulation, dello Stato minimo e della riduzione della pressione fiscale e della sua progressività. E fatta quella prima distinzione sarà più agevole aggredire singole componenti del neoliberalismo – a partire da quelle che Trump ha preservato – sulla base di una critica specifica.

DeLong, per esempio, menziona una causa del rallentamento della produttività nel periodo dell’egemonia neoliberale: «Una crescita rapida come quella osservata tra il 1945 e il 1973 richiede la distruzione creatrice: e poiché [nel processo di distruzione creatrice] è la ricchezza dei plutocrati che viene distrutta, è difficile che essi lo incoraggino» (p. 453). I critici dell’orientamento non interventista che la dottrina neoliberale ha impresso alle politiche della concorrenza sostengono infatti che esso abbia favorito più le imprese dominanti che la concorrenza (cfr. Tim Wu, The Curse of Bigness: Antitrust in the New Gilded Age, Columbia Global Reports, 2018; trad. it. La maledizione dei giganti. Un manifesto per la concorrenza e la democrazia, il Mulino, 2021). E le nomine dell’amministrazione Biden – a partire da Wu stesso – suggeriscono che essi abbiano vinto questa mirata battaglia.

I critici dell’orientamento non interventista che la dottrina neoliberale ha impresso alle politiche della concorrenza sostengono che esso abbia favorito più le imprese dominanti che la concorrenza

Certo questa linea di attacco, che procede per distinzioni e critiche puntuali, manca di un tema unificante capace di farla irrompere nella sfera pubblica con la forza che l’invocazione della libertà conferì al neoliberalismo. Ma essa non è che una pars destruens, che può accompagnarsi a diverse partes construentes: saranno queste a fornire il tema unificante (quello che trovo più attraente è la libertà repubblicana, della quale ho scritto nel saggio citato sopra). E soprattutto l’analisi di Hazard dimostra che il ribaltamento del comune sentire degli uomini di lettere europei tra il Seicento e il Settecento fu l’esito di una miriade di spinte non sempre convergenti, che si esercitarono anche su fronti che appaiono – e forse anche allora apparivano – modesti. Fu confutata la cronologia della narrazione biblica, per esempio, dimostrando che i conti non tornano: dimostrare che gli alfieri del libero mercato hanno invece presieduto a una lunga e progressiva riduzione dell’intensità della concorrenza su importanti mercati non sarebbe un risultato inferiore, in vista del superamento del «credo» neoliberale.