C’è un grande assente nell’ennesima fiammata che ha avvolto, contribuendo di nuovo ad incendiarlo, l’oramai più che centenario conflitto tra israeliani (ebrei) e palestinesi (arabi): è la prospettiva politica, pressoché latitante da almeno vent’anni, cioè da quando la stagione negoziale, propiziata dall’Amministrazione Clinton, si inabissò nel gioco dei veti. Le vicende belliche, che chiamano in causa prima di tutto le popolazioni civili dell’una e dell’altra parte, nella loro disastrosa ricaduta – non solo i morti e le distruzioni materiali ma la cristallizzazione di un odio che è fin troppo viscerale e che reitera l’anatema del reciproco disconoscimento – sono quasi un elemento di corredo in una sceneggiatura che sembra ripetersi tanto incessantemente quanto esasperatamente.

La guerra chiama in causa prima di tutto le popolazioni civili dell’una e dell’altra parte, nella loro disastrosa ricaduta, la cristallizzazione di un odio viscerale che reitera l’anatema del reciproco disconoscimentoAd innescare la miccia - si sa - è stato un episodio secondario, legato a una questioni di affitti in un quartiere gerosolimitano ad alta densità araba, Sheikh Jarrah: un pretesto che, tuttavia, raccoglie in sé tutti gli elementi della reiterazione maniacale dello scontro di lungo periodo, dalla questione degli spazi a quella dell’identità nazionale, dalla nullificazione dell’interlocutore all’ipertrofia di posizioni nazionaliste, dai riferimenti continui alle asimmetrie di ruoli, potenza e funzioni all’inerzia della comunità internazionale e così via dicendo. In questo frangente si consuma la riattivazione della macchina della mobilitazione ideologica che, nel mentre condanna come «tradimento» ogni residua ipotesi negoziale, dall’altro incapsula i discorsi dentro un involucro che ingessa ogni prospettiva. Ciò che residua di un qualsiasi dibattito è oramai sequestrato dal radicalismo delle posizioni più estreme, che si presentano come manifestazione di «identità» insindacabili. Divorandosi anche quel diritto all’«esistenza» senza il cui riconoscimento, in quanto istanza di principio non c’è più nulla da dire e, men che meno, da cercare ancora di fare. I rapporti di forza sono d’altro canto l’ambito nel quale più e meglio i conservatorismi recessivi possono proliferare. Poiché ad essere protagonisti di questa ennesimo round sono leadership stanche ma esacerbate, tali poiché incapaci di pensare oltre l’orizzonte del già dato. Dalla cui ripetizione, peraltro, ripongono le speranze di vedere riconfermata la propria centralità. La cornice di merito è poi rafforzata dal rinforzo reciproco tra decadenza del diritto internazionale, a fronte di uno scenario mediorientale in movimento, che si è svincolato da antichi patronati ma sta ridisegnando i rapporti interni ai regional players, come l’Iran, la Turchia e i Paesi del Golfo, e la sostanziale assenza dell’amministrazione americana, che ha deciso di investire i propri sforzi verso altre aree del mondo. Poste queste premesse, visto che rispetto ad ogni frase che si pronuncia scatta da subito l’anatema di qualcuno, varrà la pena di ricordare che si può naturalmente scegliere da quale parte fare pendere il piatto della bilancia. Lo si caricherà dei torti della controparte. Salvo esercitare l’omissione preventiva di quelli da attribuire alla propria. Il resto, dopo questo esercizio che si vorrebbe etico e che invece è esclusivamente moralistico (ammantandosi di ragioni insindacabili), rimane consegnato al vuoto pneumatico di azione non solo in campo diplomatico ma anche e soprattutto sul versante progettuale. Il nuovo round di violenze, variamente definito («genocidio» versus «terrorismo»), a seconda delle «sensibilità» prevalenti, è il prodotto non solo prevedibile ma necessario del logoramento dello status quo. Ovvero, di quella condizione di vuoto pneumatico nella quale entrambe le leadership israeliane e palestinesi si sono mosse in questi anni. Posto che status quo non vuole dire il rimanere fermi sulle proprie posizioni; semmai si tratta di condividere una cronicizzazione regressiva, che ha riportato l’orologio del confronto indietro di oltre trent’anni. Lo scontro in corso, quindi, non fa altro che certificare un tale stato di cose.

In Israele la definizione degli assetti a venire rispetto ai territori della Cisgiordania è materia di un perpetuo scambio elettorale, nel mentre l’incidenza degli insediamenti ebraici è andata costantemente aumentando, fino a presentarsi come pressoché irreversibile. Tanto più se essa avviene in assenza di un chiaro, esplicitato progetto politico, di cui però i sostenitori debbono assumersi la piena paternità e responsabilità: annessione, integrazione territoriale selettiva, ritiro negoziato o cos’altro. Nella comunità politica palestinese, da più di quindici anni è in corso un conflitto intestino tra ciò che resta dell’oramai vecchia classe dirigente secolarizzata, trasformatasi da tempo in un notabilato patrimonialista, e il movimentismo di Hamas, dove la conditio sine qua non del suo radicamento è il rifiuto pregiudiziale di qualsiasi attestazione di reciprocità nei riguardi dell’«entità sionista». Nella formulazione del giudizio di scenario non si tratta di stabilire un’asimmetria, consegnata alla diversa consistenza dei due attori in campo e al loro rispettivo potenziale distruttivo: entrambe le parti, peraltro, considerano l’antagonista sufficientemente pericoloso dal volerne ridimensionare definitivamente il diritto all’esistenza, prima ancora che quello di offesa nei propri confronti.

L’una condotta e l’altra parrebbero accomunate dall’essere icone del passato che non trascorre: plausibilmente, funzionano proprio per questo, posto che lo schiacciamento in un presente senza prospettive diventa la dannazione per molti ma anche l’oggettiva area di manovra per altri. Difficile pensare, infatti, che questa nuova ondata di violenze si sia verificata senza alcuna connessione con gli stalli politici che a Ramallah, così come a Gerusalemme, vigono da tempo. Se Abu Mazen, nel primo caso, non poteva non sapere che le elezioni legislative, e poi quelle presidenziali, avrebbero decretato la sua certa decadenza, il medesimo Netanyahu, dopo il quarto passaggio elettorale in Israele in due anni, potrebbe comunque beneficiare politicamente, quanto meno di riflesso, dell’evoluzione dei fatti. Non per questo, beninteso, si può essere autorizzati a dietrologie di comodo. Semmai, a fronte del quadriennio della presidenza Trump, vissuta dai palestinesi come un persistente oltraggio, c’è invece un dirompente ritorno in scena di chi si temeva invece buttato fuori da essa per sempre. Poiché quel groviglio di nodi irrisolti (terra e confini, legittimazione e sovranità, profughi e diritto al «ritorno» ma anche eccezionalismo e normalizzazione e così via) che continuiamo a chiamare «conflitto israelo-palestinese» si alimenta non solo di atti ma anche di simbolizzazioni, occupando quindi prepotentemente la scena mediatica.

Entrambe le parti, peraltro, considerano l’antagonista sufficientemente pericoloso da volerne ridimensionare definitivamente il diritto all’esistenza, prima ancora che quello di offesa nei propri confrontiLa ossessiva visibilità del confronto è divenuta una delle motivazioni della sua ripetizione attraverso i medesimi cliché. Mentre un fattore che incide sempre di più verso la non negoziabilità delle istanze contrapposte è la potente de-secolarizzazione che i radicalismi hanno introdotto nel conflitto: la visione messianica, da fenomeno di enclave marginali è divenuto un catalizzatore delle posizioni più estreme. Se la politica è l’arte del possibile e del plausibile, allora gli spazi di contrattazioni si sono seccamente ridimensionati. Per Israele la svolta ha una lunga radice, legando i movimenti di ebraicizzazione della Cisgiordania, manifestatisi da dopo la guerra di Yom Kippur del 1973, all’assassinio di Yitzhak Rabin. In mezzo ci sono più di vent’anni di profonde trasformazioni della società e della politica. Per alcuni aspetti le stesse che hanno interessato la componente palestinese, dove alla progressiva decadenza delle organizzazioni «laiche», perlopiù di impianto socialista, terzomondista e marxista, si è avvicendata la crescente dirompenza del fondamentalismo sunnita. Il quale concorre a riordinare e riallineare società spesso disarticolate da sperequazioni e diseguaglianze alle quali nessuno intende altrimenti dare voce. Oggi la parola più importante del vocabolario è «frustrazione»: non è una guerra tra due entità equivalenti e neanche tra due popoli ma un conflitto che fa breccia all’interno di essi. La vicenda degli arabi israeliani è una cartina di tornasole, accanto al dilemma, che accompagna le classi dirigenti di Gerusalemme, sul rapporto tra terra ed ebraicità.

La soluzione di due Stati per due popoli non è più praticabile; esiste semmai un problema tra etnicità e democrazia che rischia di stritolare non uno ma entrambi i contendenti, sia pure in forme e modalità molto diverse, poiché diversi sono essi stessi e molto differenti sono le prospettive a venire. Bisognerà ripartire dai fondamentali, al netto dei vuoti catechismi, delle indecenti tifoserie. Il problema non è essere partigiani ma comprendere per quale obiettivo di stia per davvero lottando.