Al volumetto in cui Giorgio Caravale, valente storico dell’età moderna, traccia il panorama del rapporto “tra politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni” ha dato il titolo Senza intellettuali (Laterza, 2023). Titolo pregnante, lungamente pensato tra amici, come specifica una nota. Nel suo racconto, un ampio dettaglio di nomi, vicende, esempi e spigolature riempie un vuoto, il vuoto lasciato dalla scomparsa dalla scena pubblico-politica degli uomini di cultura (si intende anche le donne: evviva la Crusca), un tempo autorevoli indicatori di rotte da seguire. Con una vena di nostalgia per quel tempo, Caravale non lamenta l’assenza di buona cultura, ma appunto di intellettuali, come dice il titolo. Il che suggerisce di cominciare da quel termine.

Al tempo di Zola nacque un parlare forte di quegli uomini di cultura che non si sarebbe più fermato, scatenandosi di fronte alla guerra e ai movimenti di massa

Non più aggettivo, il termine “intellettuale” come sostantivo collettivo nasce alla fine dell’Ottocento, a voler essere più precisi nel 1898, quando su un quotidiano, “L’Aurore”, Émile Zola lanciò una veemente requisitoria – celebre il titolo a tutta pagina J’accuse…!,sottotitolo Léttre au Président de la République - contro coloro che avevano accusato e incriminato per alto tradimento il capitano Alfred Dreyfus. Zola fu a sua volta incriminato e condannato, e la politica si divise tra dreyfusards e antidreyfusards. Chi erano mai, si disse tra gli antidreyfusardi, questi romanzieri, pittori, musicisti e poeti, questi “intellettuali”, che si arrogavano il diritto di dire la loro in politica, anzi di dettare le legge con l’arroganza di chi si presumeva élite? Nacque lì in effetti un parlare forte di quegli uomini di cultura che non si sarebbe più fermato, scatenandosi di fronte alla guerra e ai movimenti di massa.

Così si consumò, scrisse più tardi Julien Benda, il “tradimento dei chierici”; fino a ieri il mondo degli uomini di pensiero o si era mantenuto estraneo alle passioni politiche, come Goethe, oppure aveva adottato un atteggiamento critico, come Voltaire, o ancora se ne era curato “con una astrattezza di sentimenti, una propensione per le visioni generali, un disdegno di ciò che è immediato, che escludono completamente il nome di passione”. Ora invece, avendo le passioni politiche raggiunto una universalità che esse non hanno mai conosciuto, “gli esseri infiammati da una stessa passione politica formano una massa compatta più omogenea, in cui sono aboliti i modi individuali di sentire”. Così avviene la “condensazione delle passioni politiche in un piccolo numero di odi molto semplici”, l’“organizzazione intellettuale degli odi politici”.

Ed ecco il tradimento di cui parlava Benda: l’aver tradito l’attitudine critica, lo spirito laico che deve esser proprio di un uomo di cultura

Benda era un filosofo conservatore, e quando scriveva, negli anni Venti, aveva presenti i regimi della violenza, il bolscevismo e il fascismo, che facevano largo uso degli uomini di cultura. Era quello il tradimento di cui parlava: l’aver tradito l’attitudine critica, lo spirito laico che deve esser proprio di un uomo di cultura. E di tutto ciò, delle connivenze, degli opportunismi, i due contrapposti regimi di massa (e a un certo punto anche un po’ alleati) furono in effetti prodighi. Con la caduta di uno di essi (ma per il momento non dell’altro) la militanza degli intellettuali non cessò, ma cambiò di segno.

In Italia, si sviluppò la grande operazione comunista gramsciano-togliattiana di costruzione di una egemonia culturale e di arruolamento degli intellettuali. La raffinatezza, l’elevatezza culturale, la versatilità dell’operazione, unita a una buona dose di censura e di opportunismo, fecero dimenticare le punte più rozze delle cacce alle streghe, ma seppero anche cancellare alla vista, o ridicolizzare, chi vi sottraesse. Si operò, con più garbo, un nuovo tradimento dei chierici, che affidarono al partito la guida suprema.

Se uno spirito critico non fu del tutto messo in mora, subì comunque dei bei colpi di maglio. Nel 1952, quando Gaetano Salvemini, ormai fattosi americano, dichiarava necessario offrire uno spazio politico ai tanti giovani e meno giovani «uomini e donne di alto valore intellettuale e morale», ma disgustati dalle «manovre» di politicanti, l’allievo Ernesto Rossi, un antifascista democratico tutt’altro che comunista gli scrisse di non credere a un tale «censimento degli scontenti»: «metteremmo insieme tolstoiani, gandisti, proibizionisti, esperantisti, nudisti, teosofi, vegetariani e altri membri della simpatica famiglia di uomini col cervello scollato o la testa fra le nuvole».

Erano parole nelle quali risuonava lo sprezzo dei fascisti prima e dell’Uomo Qualunque poi per il “culturame”, come ebbe a dire Mario Scelba additando Luigi Russo e il suo “Belfagor”, e con lui tutta una filiera di spiriti critici di ascendenza risorgimentale. Una filiera mai spenta, che unì gli Azionisti agli “amici del Mondo” a riviste come “il Mulino” e così via e che mai ha smesso di suscitare lo scherno, l’insofferenza e la sufficienza, che via via Berlusconi, Beppe Grillo o Salvini hanno manifestato per l’appunto verso “gli intellettuali” – intellettuali dei miei stivali, ebbe a dire una volta Craxi, che aveva i suoi – che erano linfa vitale del Paese se correttamente allineati, figure mediocri e patetiche, radical chic ztl e quant’altro, se non lo erano.

Il mondo “senza intellettuali” che Caravale vede non è dunque un mondo senza scrittori poeti artisti o scienziati di valore. Più semplicemente, è un mondo senza il partito guida

Il mondo “senza intellettuali” che Caravale vede non è dunque un mondo senza scrittori poeti artisti o scienziati di valore. Più semplicemente, è un mondo senza il partito guida. Con la dissoluzione di fine Novecento “l’agenda culturale ha perso la sua autonomia”. Senza nuovi modelli, è preda di ambizioni, strategie accademiche, mediatiche e di potere in un mondo dove si agita un volgo disperso che nome non ha. L’autore offre una dettagliata, documentata panoramica di questo sbandamento, dei terreni percorsi – ad esempio quello degli studi storici, che Caravale pratica da professionista – oppure di alcuni suoi addensamenti (magari attorno a Craxi o a Renzi). Vi trionfa l’anticultura, o l’”antiintellettualismo” è il caso di dire, dove con Grillo si pratica “una sorta di egualitarismo narcisistico e disinformato” (bella citazione, p. 43). “Evaporato” il processo di “fidelizzazione…”, privo di un “centro di aggregazione”, “l’intellettuale si percepisce sempre di più come un singolo individuo piuttosto che come parte di un gruppo, tantomeno di un progetto collettivo”.

Mi si dica, non dovrebbe essere proprio questa solitudine la virtù degli uomini di cultura? In realtà costoro, orfani del partito guida, a star da soli proprio non ci riescono. E allora succede questo, che quando appare sulla scena un Grillo col suo “vaffanculo” alcuni uomini di cultura di indubbio valore – provenienza di sinistra - plaudono entusiasti e si appellano a lui: “Un patto per cambiare. Se non ora, quando?” gridarono con gli altri Remo Bodei e Salvatore Settis, Antonio Padoa Schioppa e Barbara Spinelli; e quando, nel 2013, i Cinque Stelle ottennero un buon successo elettorale, ci fu tra quei firmatari chi vide “il più profondo rinnovamento che mai si sia visto in Italia” e le “straordinarie potenzialità di una nuova stagione politica”.

Gli sbandati hanno insomma bisogno di nuove guide in politica, quali che siano. Non ci dobbiamo stupire allora se oggi la politica è ridotta a pura arena gladiatoria.