È nelle sale il nuovo film del regista Marco Bellocchio che si misura con la triste storia di Edgardo Mortara, il bambino ebreo che nel 1858 veniva sottratto alla famiglia per ordine dell’inquisitore locale di Bologna secondo le leggi dell’allora Stato pontificio, dopo la scoperta che egli era stato nascostamente battezzato da una domestica in quanto ritenuto in pericolo di morte.

Il battesimo in articulo mortis rientrava nella fattispecie del battesimo di necessità, ed era (ed è) amministrabile da chiunque purché le intenzioni del ministro siano quelle della Chiesa. La ragione di tale possibilità è legata alla necessità del battesimo per la salvezza, che lo rende un sacramento che può essere letto al tempo stesso in un’ottica inclusiva (poiché ricevibile e amministrabile da tutti, anche non credenti) ed esclusiva (averlo ricevuto è una condizione determinante sia in senso soteriologico sia penitenziale).

Quella di Edgardo Mortara è una storia nota e non unica, tornata alla ribalta varie volte nella storia recente, in particolare nel 2000, in occasione della beatificazione di Pio IX, pontefice regnante all’epoca dei fatti, che Giovanni Paolo II descriveva come «esempio di incondizionata adesione al deposito immutabile delle verità rivelate», sempre pronto a «dare il primato assoluto a Dio e ai valori spirituali»; e nel 2017 in seguito all’uscita dell’edizione inglese del libro sul caso Mortara del giornalista Vittorio Messori, che l’anno successivo veniva ripreso da un articolo-recensione del teologo Romanus Cessario, il quale evitava di citare gli sviluppi nei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo dopo il concilio Vaticano II (1962-1965) e vedeva nei fatti la prova dell’inevitabile scontro tra «esigenze della fede» e «presunte libertà civili».

Il film si apre con la recita del salmo 121 (120 nella versione greca detta dei Settanta), con cui l’opera introduce il tema della Provvidenza, grande presente-assente in tutta la narrazione: «Non si addormenterà, non prenderà sonno il custode d’Israele». È l’apertura di un capitolo che trova il necessario corrispettivo nel rapporto tra Provvidenza e libertà umana, professata apertamente dal giovane Edgardo (qui Leonardo Maltese, da bambino è Enea Sala), ormai prete, con la rinuncia al ricongiungimento con la famiglia dopo la breccia di Porta Pia (che nel film è quasi un’apparizione) e la fine del potere temporale dei papi. L’opera mette in scena il passaggio drammatico dalla non-scelta a una scelta indotta. È sintomatico, al riguardo, il tentativo di Edgardo di battezzare la madre (Barbara Ronchi) sul letto di morte, una mossa vanificata dalla fermezza della donna: «Io sono nata ebrea e morirò ebrea».

Per il resto, a dettare i tempi degli eventi narrati sono la recita mattutina e serale della preghiera dello Shemà Israel, «ascolta, Israele», in casa Mortara, da un lato, e delle orazioni in latino in ambiente cattolico, dall’altro. Il film sembra evidenziare un contrasto reso già dalla lingua: da quella del popolo eletto a quella dell’impero romano, due lingue poste dinanzi all’esigenza del sacro ma figlie di una differente percezione e rappresentazione di esso.

La liturgia barocca non ha l’elasticità di una preghiera domestica, né i protocolli e la presenza del papa ricordano i rapporti tra familiari (tantomeno quello con il padre Momolo, impersonato da Fausto Russo Alesi, che trasmette perfettamente lo sperdimento e un istinto quasi ingenuo come esiti più strazianti dei fatti). Solo la figura di Elia (Christian Mudu), uno dei bambini che Edgardo incontra una volta giunto a Roma, spezza l’atmosfera fredda e distaccata con cui Bellocchio raffigura l’ambiente ecclesiastico ottocentesco, abilmente restituito da Paolo Pierobon e Fabrizio Gifuni nei rispettivi panni di papa Pio IX e del padre inquisitore Pier Gaetano Feletti.

Il film riapre la questione del rapporto tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Quella dell’antisemitismo è una ferita aperta nella storia e nella teologia cristiana e cattolica in particolare

Ci sono diversi motivi per cui Rapito è un film importante. Primo, perché riapre la questione del rapporto tra Chiesa cattolica ed ebraismo. Quella dell’antisemitismo è una ferita aperta nella storia e nella teologia cristiana e cattolica in particolare, soprattutto perché non riguarda solo il passato. Se il concilio Vaticano II ha rigettato completamente il cosiddetto «insegnamento del disprezzo» che si esprimeva con forme diverse (dalla preghiera per la conversione all’accusa di «deicidio» rivolta al popolo ebraico per la morte di Gesù), non si può dare per acquisita nelle comunità cristiane di oggi (ma anche fuori dalle comunità cristiane: da docente che si ritrova tutti i giorni di fronte a studenti che non hanno più un retroterra religioso, noto la sorpresa con cui essi ricevono la notizia che Gesù e i protagonisti della Scrittura erano ebrei) la recezione del cambio di prospettiva voluto dal concilio con la dichiarazione Nostra aetate, che tuttavia rigetta l’antisemitismo ma non l’antigiudaismo. In questo senso, il film di Bellocchio può contribuire a gettare nuova luce sugli esiti che una teologia della sostituzione (la teoria per cui Gesù ha stipulato una nuova alleanza che rimpiazza quella precedente con gli israeliti) ha avuto e può avere sul popolo ebraico.

Secondo, il film è uno spaccato di un periodo di storia della Chiesa che necessita di essere ripreso e discusso per la prosecuzione dell’indagine sulla modernità come momento problematico non solo per la Chiesa: studiosi e osservatori della politica non mancano di notare come alcune linee di faglia del presente abbiano particolari momenti rivelatori nella storia delle istituzioni e delle forme politiche, il che non è meno vero per la Chiesa e per gli effetti che la storia della Chiesa non può non avere sulla storia umana. Il rapporto tra cattolicesimo ed ebraismo va letto anche alla luce della modernità come problema (storico, storiografico, culturale, politico, teologico) che si impone e ha bisogno di essere riconosciuto come tale. Il ritorno del tradizionalismo cattolico online e non solo, per esempio, sta significando un ritorno alle polemiche contro il Vaticano II e Nostra aetate, che alcune reazioni al film hanno già evidenziato.

Terzo, l’opera di Bellocchio non è un documentario, ma ha tra i suoi scopi la formazione critica a proposito di un caso che non si può ridurre a un episodio sfortunato. Ciò implica l’importanza della teologia e della storia per la vita delle Chiese, ricordando alle stesse di non poter rinunciare a una sensibilità ecumenica. L’ecumenismo e la formazione all’ecumenismo includono tra i loro requisiti la consapevolezza delle radici ebraiche del cristianesimo e della comune storia di rifiuto di queste radici da parte delle Chiese. Ma per nutrire questa consapevolezza è necessario investire nella formazione teologica e storica delle comunità.

L’opera di Bellocchio ha tra i suoi scopi la formazione critica a proposito di un caso che non si può ridurre a un episodio sfortunato. Ciò implica l’importanza della teologia e della storia per la vita delle Chiese

Infine, Rapito può essere un contributo a riflettere sul potere temporale dei papi. Non è solo una questione di modalità di esercizio, ma anche di opportunità che la missione spirituale della Chiesa conti su una qualche forma di sovranità politica, quella a cui papa Paolo VI riconosceva il solo ruolo di «qualificarci liberi e indipendenti». È un tema che non va affrontato con intenti polemici, ma a partire da considerazioni anche giuridiche in un mondo che ha sperimentato il bisogno di istituzioni, pur conoscendo oggi la loro crisi. Come ha scritto il teologo Marcello Neri, si tratta di chiedersi se e come questa sovranità (assoluta) sullo Stato della Città del Vaticano può diventare «il grimaldello operativo per gettarsi oltre la forza di attrazione onnicomprensiva del paradigma codificatorio», per non paralizzare la tensione tra il piano pubblico e storico della fede e quello pratico e ricettivo delle istanze del Vangelo.

Una notazione non secondaria riguarda la persona del regista. Il fatto che ad aver realizzato questo film sia stato un artista italiano – dopo la rinuncia di Steven Spielberg a realizzare un film sullo stesso argomento – non è un dato da ascrivere al mero piano degli eventi casuali. Ma assume importanza perché, sebbene accaduti in epoca preunitaria, i fatti raccontano una certa Italia e una certa visione dell’Italia, che non è solo quella cattolica. La storia di Edgardo Mortara è anche la storia di un italiano che si trova ad affrontare un dramma che assurge a caso internazionale, ma che non è meno italiano, come si vede dal processo, finito male, imbastito dal nuovo ordinamento politico contro quello inquisitoriale e pontificio.

Quello di Bellocchio è un film sull’Italia e sull’Italia di ieri e di oggi non meno che sulla Chiesa cattolica e sulla Chiesa cattolica di ieri e di oggi. Soprattutto, è un film che guarda all’Italia e alla Chiesa attraverso le lenti del cambiamento: Bellocchio riesce a trasmettere questo cogliendo la resistenza e la dovuta rassegnazione al cambiamento da parte dei soggetti coinvolti.