L’Italia si è avvicinata alle elezioni politiche con fondamentali economici in rapido deterioramento. A causa dell’invasione russa dell’Ucraina, la crescita del Pil si fermerà a un modesto 0,6% nel 2023 (Nadef). Una pessima notizia, dato che il Pil è ancora inferiore al livello del 2008. In questi anni, la disuguaglianza di reddito e ricchezza è cresciuta a una velocità comparabile a quella degli Stati Uniti. Secondo l’Eurostat, il 25% degli italiani è a rischio povertà contro una media Ue del 21,7%. Inoltre, il lavoro povero è una piaga diffusa che colpisce l’11,7% dei lavoratori con contratti a tempo determinato e part-time. La crescita dell’occupazione si è fermata durante l’estate (Istat), mentre, secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Inps, i lavoratori con contratti a termine hanno raggiunto la cifra record di 4,2 milioni. L’inflazione per il 2022 è balzata al 8,9% (Istat), e l’Ocse si aspetta un calo dei salari reali pari al 3% nel 2022 contro una media europea del 2,3%. Tale caduta si innesta in una stagnazione trentennale: l’Italia è l’unico Paese Ocse dove i salari reali sono diminuiti (-2,9%) dal 1990.

Le fragilità dell’economia italiana vengono da lontano e dipendono dalle crescenti dosi di politiche economiche neo-liberiste, basate sull’austerità fiscale e la flessibilizzazione ossessiva del mercato del lavoro

La pandemia del Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno certamente contribuito a questo quadro a tinte fosche. Ma le fragilità dell’economia italiana vengono da lontano e dipendono dalle crescenti dosi di politiche economiche neo-liberiste, basate sull’austerità fiscale e la flessibilizzazione ossessiva del mercato del lavoro. Infatti, mentre il compromesso sociale raggiunto alla fine della Seconda guerra mondiale cessava (Dosi e Virgillito, 2019), le politiche del "Consenso Berlino-Washington" (Fitoussi e Saraceno, 2013) hanno ulteriormente peggiorato la situazione riducendo la spesa pubblica per sanità, istruzione e investimenti pubblici. Le riforme strutturali del mercato del lavoro hanno aumentato la disuguaglianza e la volatilità delle retribuzione (Hoffman et al., 2021), ridotto la stabilizzazione dei lavoratori con contratti a termine (Di Porto e Tealdi, 2022), con effetti perversi sul rallentamento della produttività e della crescita economica (Dosi et al., 2021).

A causa della pandemia, l’Unione europea ha iniziato timidamente a cambiare la sua agenda di politica economica. Con il Next Generation Eu, ha emesso debito europeo per finanziare un vasto piano di investimenti pubblici con un significativo trasferimento di risorse ai suoi membri più deboli, tra cui l’Italia, il maggiore beneficiario dei fondi. Una nuova stagione di politiche industriali e per l’innovazione è stata inaugurata dall’ European Chips Act, dall’ European Solar Strategy, e dal pacchetto Fit for 55 (anche se ciò non è avvenuto con lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini Covid-19, dove la Ue ha difeso strenuamente i diritti di proprietà intellettuale, cfr. Dosi et al., 2022a). Con la Direttiva sul salario minimo, l’Unione europea ha proposto una minima regolamentazione del mercato del lavoro per opporsi a una flessibilizzazione incessante.

Con una grande dose di ottimismo, la nuova agenda europea potrebbe far parte di un nuovo quadro di politica economica che tenta di superare il flagello delle politiche neo-liberiste, verso una sorta di "Nuovo Consenso"  di politica economica

Con una grande dose di ottimismo, la nuova agenda europea potrebbe far parte di un nuovo quadro di politica economica che tenta di superare il flagello delle politiche neo-liberiste (Stiglitz, 2019), verso una sorta di Nuovo Consenso di politica economica, a volte chiamato anche Bidenomics o Nuovo paradigma produttivista (Rodrick, 2022). Più in generale, esso implica almeno un intervento più intenso e diffuso dello Stato nell’economia per ridurre la disuguaglianza, regolamentare il mercato del lavoro per aumentare il potere ai lavoratori, incrementare la spesa in istruzione e sanità, fronteggiare le sfide sociali dalla pandemia e dell’emergenza climatica. In ultima analisi, la Nouvelle Vague di politica economica prevede che lo Stato possa e debba guidare gli stessi processi di innovazione e sviluppo economico (si vedano le nostre raccomandazioni all’Unione europea nell’ambito del progetto GROWINPRO, Dosi et al., 2022b).

Se non è ancora affatto certo che l’Unione europea abbraccerà questa nuova visione, è sicuro che l’Italia non lo ha fatto. Il nostro Paese è infatti ancora impantanato in un quadro di politiche neo-liberiste con alcune correzioni cosmetiche. L’adagio del Gattopardo, "se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi", è più che mai attuale considerando il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e più in generale le politiche del governo guidato da Mario Draghi.

Il Pnrr è un elenco male assemblato di progetti, molti dei quali provenienti da pile impolverate dei vari ministeri, tenuto insieme da un gergo da società di consulenza. Nonostante il Piano preveda troppe iniziative di spesa, che ne limitano l’efficacia, alcune di queste sono più uguali delle altri. La maggior parte dei fondi è infatti destinata alle imprese con minime o zero condizioni (si vedano gli incentivi per la transizione digitale del settore privato e il Superbonus 110%). E il risultato sarebbe potuto essere perfino peggiore, se la Commissione europea non avesse rifiutato l’inserimento nel Pnrr del progetto di cattura e stoccaggio del carbonio sotto il mare Adriatico, sponsorizzato dall’Eni per produrre idrogeno con gas naturale.

Il nostro Pnrr è desolante anche dal lato delle riforme. Per esempio, la promozione della concorrenza si è concentrata principalmente sui servizi pubblici locali, toccando marginalmente il potere monopolistico delle imprese. La riforma del salario minimo è sparita dopo appena tre giorni dalla sua comparsa in una bozza del piano. Più in generale, mentre la Spagna regolamentava i contratti a termine per scoraggiarne l’utilizzo, con buoni risultati in termini di occupazione, il governo Draghi li rendeva più facili sospendendo temporaneamente l’indicazione della causale. Gli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa proposte dalla commissione istituita dal ministero del Lavoro sono state ignorate. Lo stesso trattamento è stato riservato alle proposte del comitato scientifico per migliorare ed estendere il Reddito di cittadinanza (Rdc). Non solo, le condizioni per mantenere il Rdc sono stare rese più restrittive. Le misure per contrastare le delocalizzazioni delle imprese sono stata annacquate fino a renderle inutili o dannose. Contemporaneamente, il numero di bonus è proliferato: ce ne sono per comprare televisioni di nuova generazione, tende da sole e perfino per rilassarsi alle terme.

La riforma fiscale non è stata approvata, ma il governo aveva già raggiunto un accordo al ribasso che non risolveva i problemi del sistema fiscale italiano, come ben spiegato da Vincenzo Visco su questa stessa rivista. Infatti, nonostante il 5% più ricco degli italiani paghi un’aliquota inferiore a quella del resto della popolazione, la riforma fiscale lasciava inalterata la frammentazione e la blanda progressività del sistema fiscale italiano, evitando di rimuovere i numerosi regimi speciali che rendono l’Irpef un’imposta pagata solo dai lavoratori dipendenti, aumentare le imposte di successione, introdurre un’imposta patrimoniale, utilizzare la riforma del catasto per fini fiscali ecc.

La faglia che permane tra l’Italia e un possibile "Nuovo Consenso" di politica economica si osserva anche negli interventi di mitigazione del cambiamento climatico

La faglia che permane tra l’Italia e un possibile "Nuovo Consenso" di politica economica si osserva anche negli interventi di mitigazione del cambiamento climatico. Il nostro Paese ha cercato di posticipare la messa al bando europea delle auto con motore a scoppio, mentre introduceva sussidi per comprare nuove macchine a benzina e diesel. Ci sono ancora sussidi per comprare caldaie a gas. Il Superbonus 110% è una misura regressiva che riduce le emissioni di gas serra a costi altissimi per le finanze pubbliche. Nonostante la loro posizione geografica, da anni la Germania e i Paesi Bassi surclassano l’Italia nell’installazione di energia fotovoltaica. Mentre il governo dichiara di semplificare le procedure burocratiche, ci sono richieste di autorizzazioni inevase per nuovi impianti rinnovabili per circa 200 GW. Nel frattempo il ministro per la "transizione ecologica" si scaglia contro la lobby dei rinnovabilisti (sic!). Le politiche da perseguire per l’indipendenza energetica e la decarbonizzazione sono chiare, ma il governo ha scelto di ignorarle.

Ci sono altri esempi che non possono essere discussi per ragioni di spazio. Il punto finale, a nostro avviso, è che il governo guidato da Mario Draghi non ha mai avuto una visione di crescita sostenibile e inclusiva basata sull’innovazione, il rilancio della produttività, la redistribuzione egualitaria del reddito, l’ampliamento dei beni autenticamente pubblici, ma è rimasto prigioniero nel mito che il mercato ha sempre ragione. Il risultato finale è stato che l’unica opposizione capace di intercettare buona parte del malcontento sociale è stata la destra post-fascista, mentre il Partito democratico è stato identificato con l’establishment abbiente delle Ztl.

Al meeting di Comunione e liberazione, Mario Draghi ha dichiarato che "l’Italia ce la farà con qualsiasi governo". Purtroppo, non siamo così ottimisti e vediamo un filo preciso tra la politica economica del suo governo, i risultati delle elezioni e le nuove misure economiche della coalizione di estrema destra che sostituiranno ogni intervento residuo di contrasto alla disuguaglianza e all’emergenza climatica con tagli fiscali e programmi di spesa a favore delle imprese. Il risultato potrebbe essere una nuova crisi finanziaria e una stagnazione prolungata che potrebbero rendere il nostro Paese l’Argentina dell’Unione europea. All’opposto, l’Italia ha un urgente e disperato bisogno di una politica economica che preveda un molto maggiore intervento dello Stato nell’economia, in linea con gli obiettivi che la società stessa detta.

Ci sono due insegnamenti generali che si possono trarre dalle elezioni italiane (e non solo). Primo, quando i partiti di sinistra rinunciano alla loro agenda sociale, le paure, la rabbia e le frustrazioni di una crescente percentuale di persone sono intercettate da movimenti di estrema destra capaci di coniugare la continuazione di politiche economiche neo-liberiste con una costruzione di identità collettive con ascendenze fasciste – la "nazione", la famiglia, le "origini cristiane", l’odio verso gli "altri", la donna/uomo forte al commando, ecc. Dietro a tutto ciò, secondo, c’è un vulnus irrimediabile dell’intera costruzione ideologica neo-liberista, non importa quanto "inclusiva" nelle sue enunciazioni astratte. Se, sbagliando, tutti i comportamenti umani vengono ridotti a motivazioni economiche (nell’espansione metastatica del paradigma neoclassico ad ogni ambito sociale come discusso in Dosi e Roventini, 2016), allora sarebbe ancora più essenziale, per loro, mostrare come questo paga per l’"elettore mediano" (qualsiasi cosa il termine voglia dire) in termini di ritorni economici. Al contrario, da Clinton e Blair, Schroeder, Hollande … fino a fuori tempo massimo, a Renzi e Letta, questo porta a ulteriori depauperamenti delle classi medie, precarizzazioni delle condizioni di lavoro, aumento della diseguaglianza ecc.

Dopo un secolo, l’Italia sarà nuovamente la vittima di un rischiosissimo esperimento sociale. Speriamo di aver sbagliato le nostre previsioni. Al contempo, il nostro Paese potrebbe essere parte – lo diciamo semplicemente con "l’ottimismo della volontà" – di una riscoperta di identità collettive solidali e egualitarie. Ci sono e sempre state "visioni egemoniche", di destra e di "sinistra", profondamente identitarie, malgrado interessi anche molto diversi (per non citare Gramsci, si veda Lakoff 2004, sugli Stati Uniti nel dopoguerra). I neo-liberali ci hanno privato anche della possibilità di pensare a una versione contemporanea di libertè, égalitè, fraternitè: riscopriamola, nella teoria e nella pratica politica