Sono stati resi noti i risultati dell’edizione 2018 del Programme for International Student Assessment (Pisa) dell’Ocse. Pisa è un’iniziativa internazionale – promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico – che prevede la rilevazione (con cadenza triennale, a partire dal 2000) dei livelli di competenza in lettura, matematica e scienze dei quindicenni scolarizzati. L’edizione 2018 (corrispondente al settimo ciclo di rilevazioni) si distingue per la partecipazione di 600 mila adolescenti e 79 Paesi/economie – la più estesa mai raggiunta, evidentemente non limitata ai soli 36 paesi appartenenti all’Ocse. I rapporti Pisa (e i dati che permetteranno ai ricercatori di effettuare approfondite analisi originali) sono molto ricchi di informazioni riguardanti le famiglie degli studenti e i contesti sociali e scolastici in cui gli alunni vivono. Le indagini mettono quindi a disposizione un ritratto ampio dei sistemi educativi e sociali, non concentrato esclusivamente sui livelli di competenza. L’ampiezza dei temi affrontati e la complessità tecnica della ricerca rendono ardua una qualsiasi sintesi, ma in questa sede possiamo soffermarci su alcuni punti degni di interesse.

In primo luogo, come va la scuola italiana? Spesso i mezzi di informazione si concentrano solo sulle “graduatorie” dei Paesi, che si basano semplicemente sui punteggi medi degli alunni. Per l’Italia, tali punteggi sono sempre stati – in ciascuno dei sette cicli e in ciascuno dei tre ambiti cognitivi – inferiori alla media Ocse. La situazione non cambia nella rilevazione 2018. In lettura e, più marcatamente, in scienze, le prestazioni complessive italiane sono al di sotto della media; anche in matematica i risultati sono inferiori al riferimento internazionale, ma in misura non significativa. In lettura, la dinamica è tendenzialmente piatta lungo l’arco dei sette cicli; in matematica l’Italia è migliorata apprezzabilmente rispetto alle prime due rilevazioni, ma da un decennio le prestazioni medie sono stabili; in scienze, invece, si assiste a un peggioramento costante delle prestazioni italiane. Se si vuole stare al gioco delle graduatorie e prendere come riferimento i partner/competitori più popolosi entro l’Unione europea, va sottolineato che in ciascuno dei tre ambiti di competenze l’Italia ha risultati inferiori a quelli registrati nel Regno Unito, in Francia, in Germania e in Polonia; i risultati della Spagna sono superiori a quelli italiani in scienze, simili in matematica e ancora non pubblicati per la lettura

Ma i valori medi, si sa, restituiscono un quadro incompleto. Pisa stima anche l’incidenza complessiva di studenti con livelli di competenza ritenuti inadeguati (tecnicamente, inferiori al “livello 2”, ritenuto una soglia “minima” o “di base”) e, di converso, con livelli eccellenti (i cosiddetti top performers). In lettura, il 23% degli studenti italiani esprime prestazioni inadeguate – un’incidenza in linea con la media Ocse ma apprezzabilmente maggiore di quella osservata nei succitati cinque Paesi europei. Gli “eccellenti” sono solo il 5%, sensibilmente meno che nell’Ocse nel complesso e circa la metà rispetto ai cinque Paesi di riferimento. Dietro alle prestazioni medie leggermente deludenti dell’Italia, dunque, si cela una distribuzione dei livelli di competenza schiacciata verso il basso. Le prestazioni dei sottogruppi estremi è leggermente meno squilibrata in matematica (24% di inadeguati e quasi il 10% di eccellenti, non dissimile da quanto registrato a livello Ocse: 24 e 11%), ma decisamente più squilibrata in scienze (26% di inadeguati e neppure il 3% di eccellenti, contro il 22 e il 7% a livello Ocse). Il fatto che ben un quarto dei quindicenni italiani scolarizzati esprima un livello inadeguato di preparazione in ciascuno dei tre ambiti indagati dovrebbe suscitare molta apprensione, anche se l’Ocse nel suo complesso manifesta una situazione simile. Non solo: nel corso degli ultimi quattro cicli (dal 2009, in altre parole), in lettura e in scienze gli scolari italiani con una preparazione debole non sono mai stati così tanti, e gli eccellenti non sono mai stati così pochi.

Qualche elemento di conforto si potrebbe forse trarre dal fatto che in Italia il nesso fra origini familiari (ossia le risorse materiali e culturali cui gli alunni possono attingere a casa) e livello di competenza è relativamente tenue rispetto alla media Ocse – un indicatore di equità sociale. Purtroppo, questo risultato è ascrivibile anche al calo di prestazioni degli studenti provenienti da contesti privilegiati; e i ragazzi svantaggiati non migliorano.

Si potrebbe essere tentati di giustificare l’accentuata mediocrità dei risultati italiani sottolineando l’aumento, nel corso del tempo, degli scolari di origine immigrata, associato al fatto che i loro genitori sono anche particolarmente poco istruiti. In effetti, i figli di immigrati esprimono prestazioni inferiori ai loro coetanei italiani. Ma non si possono “incolpare” i giovani di origine immigrata. In primo luogo, l’accresciuto peso dei giovani di origine immigrata dipende in misura soverchiante dalle seconde generazioni, nate in Italia. In secondo luogo, il calo delle prestazioni in lettura è determinato dai nativi; i figli di immigrati sono anzi migliorati nel corso del tempo.

Dalle precedenti rilevazioni Pisa emergono divergenze nette in funzione dell’indirizzo scolastico frequentato: i liceali manifestano livelli di competenza più elevati rispetto ai loro compagni dell’istruzione tecnica e di quella professionale. In attesa di una (scontata) conferma di questa differenziazione nell’ambito di Pisa 2018, si può comunque citare il fatto che in Italia, rispetto alla media Ocse, si registra un livello relativamente elevato di “isolamento” scolastico (ossia di segregazione) sia degli studenti con elevati livelli di competenza, sia degli alunni deboli. In altre parole, gli studenti più preparati tendono a concentrarsi in poche scuole (licei, verosimilmente) piuttosto che essere equidistribuiti tra gli istituti secondari; e lo stesso vale per gli alunni meno preparati (che, presumibilmente, si concentrano in istituti ad indirizzo non liceale).

La segregazione socio-scolastica rimanda a un problema strutturale: la tendenza, nel dibattito pubblico e soprattutto nei mezzi di informazione, ad equiparare la scuola secondaria di II grado con il liceo (classico e tutt’al più scientifico) e a difendere la loro “eccellenza”. Sul primo punto, ricordiamoci che i licei – tutti: compresi il linguistico, l’artistico, le scienze umane ecc.) – sono frequentati da meno della metà degli iscritti all’istruzione secondaria di II grado; il liceo scientifico da meno di un quarto; il classico da meno di un decimo. Anche se i licei conoscono un crescente successo di iscrizioni, è l’istruzione non liceale ad essere la scuola di massa e ad essere troppo spesso trascurata dalle politiche dell’istruzione. In secondo luogo, come si è visto, l’“eccellenza” è una risorsa alquanto rara, quanto meno fra i quindicenni scolarizzati italiani. Valorizzare l’eccellenza va bene, ad esempio per arginare la fuga dei cervelli dopo la conclusione degli studi universitari; ma ancora più importante è fare in modo che vi sia più eccellenza, a partire da età più tenere rispetto a quella dei nostri laureati. Da molto tempo, e ancora adesso, stiamo andando nella direzione sbagliata (e ciò senza considerare altre dimensioni di estremo rilievo, come il divario Nord-Sud, altro elemento documentato regolarmente da Pisa).