Tra le tante ragioni per cui la guerra di Putin ci appare particolarmente odiosa c’è la circostanza che noi, quelli che a torto o ragione sono definiti «occidentali», possiamo fare ben poco per fermarla. Sembriamo paralizzati, a differenza del 2001 o del 2003, quando furono gli Stati Uniti a lanciare gli attacchi contro l’Afghanistan e l’Iraq.

Si può obiettare che tutte le guerre sono uguali e l’effetto Cnn è lì a ricordarcelo: le morti di civili, le sofferenze delle popolazioni, i centri abitati sventrati, i profughi. È difficile – sebbene qualcuno ci abbia provato, sottolineando ancora una volta quanto ipocrita sia il nostro universalismo – distinguere tra la sofferenza di chi arriva oggi alla stazione centrale di Berlino (dall’Ucraina) e chi arrivò nel 2015 (dalla Siria).

Tuttavia, se nel 2001 o nel 2003 era la “nostra” parte ad aver iniziato il conflitto – ed era quindi più immediato chiedere ai “nostri” governi di fermarsi – l’attacco di Putin ci rivela tutta la violenza dell’aggressore e, insieme, la nostra impotenza.

Il presidente russo rimette al centro delle relazioni internazionali la guerra: Vuoi fermarmi? Allora devi anche tu essere disposto a combattere. Questo è il messaggio con il quale Putin ha, per certi aspetti, già raggiunto un obiettivo di primo piano, indipendentemente da come terminerà la guerra. Perché mentre cerchiamo di capire se e che cosa nella sua strategia non ha funzionato, se sia malato o speculiamo su di un cambio di regime, il Cremlino inaugura una nuova fase della storia del continente, che la mia generazione non aveva mai conosciuto. E di fronte a questa nuova fase le categorie con le quali abbiamo ragionato sino a oggi si rivelano non più efficaci.

Prendiamo il movimento pacifista, da settimane sotto accusa. All’inizio perché non solidarizzava con l’Ucraina – si sprecavano le battute: Dove sono le piazze dei pacifisti? – poi per una solidarietà priva di concretezza – Se non volete inviare le armi, state chiedendo agli Ucraini di arrendersi – infine per una presunta indulgenza (che è stata persino vista come complicità) verso le scelte di Putin. Il collante ideologico di questi attacchi è fin troppo chiaro e Francis Fukuyama lo ha, come al solito con grande onestà, codificato in un articolo con la richiesta di azzerare gli ultimi trent’anni e finire il lavoro rimasto incompiuto dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Non è il caso di soffermarsi troppo su queste critiche pelose, ma è certamente indispensabile che il movimento pacifista riveda alcune delle sue certezze perché non siano d’ostacolo a una piena comprensione della trasformazione nella quale siamo immersi.

Al di là delle critiche pelose, è indispensabile che il movimento pacifista riveda alcune delle sue certezze perché non siano d’ostacolo a una piena comprensione della trasformazione nella quale siamo immersi

Olaf Scholz, cancelliere tedesco, ha parlato di una Zeitenwende, una svolta epocale, e ha annunciato cento miliardi di euro per la difesa. Si tratta di una misura che punta a raggiungere da subito e per i prossimi tre anni l’obiettivo Nato del 2% di Pil per la difesa. Con un appello una parte della società tedesca ha manifestato tutta la propria contrarietà, perché nuove risorse per la difesa significano (nuovi) tagli al sistema sociale. Inoltre, «l’acquisto pianificato di armi per i prossimi anni non pone fine alla morte in Ucraina, non rende il nostro mondo più pacifico e sicuro. Non possiamo permettercelo se vogliamo un futuro».

Non si può negare che questa riflessione contenga una o più verità. La reazione al cambiamento climatico, che pure richiederebbe investimenti cospicui, è stata per anni inesistente mentre 100 miliardi per la difesa sono stati individuati nel corso di una notte. Fa un po’ specie sapere che alcune spese possono non rientrare nel calcolo del pareggio di bilancio – il mitico Schwarze Null – ma che altre, quelle sociali, persino dopo una pandemia, non godranno mai dello stesso trattamento di favore.

Per quello che può valere, non ho firmato l’appello, che mi pare incapace di confrontarsi con la novità di fronte alla quale ci ha messo Vladimir Putin.

Intanto, non possiamo fare a meno di tener presente che, persino nella tradizione del movimento operaio e della socialdemocrazia, non tutte le guerre sono uguali. Non voglio qui richiamare la complicata questione del bellum iustum, della guerra giusta, o della guerra difensiva, che Bismarck sfruttò nel 1870 manipolando il famoso dispaccio di Ems per farsi dichiarare guerra dalla Francia e avere il sostegno anche dei socialdemocratici e che influenzò le scelte dell’estate del 1914.

Vorrei, invece, far notare che, tra le vittime di questa guerra, oltre ai tanti civili che drammaticamente riempiono le immagini di queste settimane, potrebbe esserci anche l’unità politica del continente, l’Unione europea.

Non è un caso che gli attacchi più duri tornino a concentrarsi contro la Germania, che avrebbe colpevolmente taciuto di fronte ai crimini passati di Putin in cambio di gas e petrolio. Una visione quantomeno parziale che non tiene conto di tanti aspetti della storia tedesca – un Paese liberato per due volte, nel 1945 e nel 1990, anche grazie al determinante contributo russo – e che rimette al centro della questione, come già in passato, il complicato processo di unificazione politica continentale (che ancora costituisce una questione aperta tra Francia e Germania).

Se s’intende fare una critica alla politica estera tedesca degli ultimi anni, bisogna dire che essa non ha saputo declinare con maggiore chiarezza gli interessi continentali e segnalare con chiarezza a Putin quali fossero le linee rosse insuperabili per l’Unione europea. I tedeschi non sono stati troppo accondiscendenti con Putin, tutt’al più non hanno mai davvero parlato la sua lingua. E oggi, di fronte alla guerra, sono da settimane bloccati in una politica puramente assertiva che descrive la situazione («la guerra è contraria al diritto internazionale», «Putin è un criminale di guerra», «Servono maggiori sanzioni») ma che non riesce a disporre della necessaria fantasia per immaginare un cessate il fuoco e l’avvio di trattative.

In questo modo Berlino continua ad essere sulla difensiva, esposta ad attacchi, spesso insensati, di chi ritiene si debba fare di più. Prassi non nuova negli ultimi anni: prima bloccare il Nord Stream 2, poi magari che il Nord Stream 1, poi un embargo totale. Ma è la strada giusta?

La politica europea degli ultimi anni va certamente modificata, soprattutto l’Unione europea non può continuare a non definire chiaramente i suoi interessi e a non declinare la propria autonomia strategica. Se non c’è nulla di neutro nelle scelte energetiche e tecnologiche, occorre permettere agli europei di discuterne del contenuto e delle conseguenze politiche. Questo vale per la Russia oggi, per la Cina sul 5G, per gli Stati uniti sulla sicurezza continentale: ogni soluzione contiene inevitabilmente rischi ed opportunità ma non si può gestire la transizione energetica e la trasformazione verde solo sulla base di scelte dettate dalla contingenza e dall’orrore per i crimini di guerra in Ucraina.

In questo senso la scelta tedesca sul Sondervermögen per la difesa rappresenta un inizio, seppur contraddittorio e certamente debole. Ma è un messaggio rivolto soprattutto a due destinatari.

Da un lato i Paesi dell’Europa orientale, colpevolmente abbandonati negli ultimi anni – altro grave errore di Berlino – e che vivono l’attacco russo con una percezione completamente diversa dalla nostra. Mentre noi possiamo scherzare sull’Armata rossa e sui cosacchi che avrebbero abbeverato i loro cavalli in piazza San Pietro, la battuta difficilmente potrebbe far ridere un nostro concittadino polacco, ceco o lettone. Meno che mai dopo il 24 febbraio, ma forse non abbiamo mai davvero provato a compiere questo sforzo di comprensione.

Il secondo destinatario è la Francia che sa di doversi confrontare con una Germania che spinge verso la comunitarizzazione delle forze armate e, soprattutto, della minaccia nucleare, la force de frappe.

Il pacifismo è divenuto, dunque, una illusione? Non credo. E certamente non vanno sottovalutati i rischi di una nuova corsa globale al riarmo. Ma non può nemmeno non confrontarsi con la trasformazione che Putin ha impresso nelle ultime settimane: solo definendo chiaramente obiettivi e interessi strategici, solo tracciando chiaramente linee rosse che non possono essere oltrepassate, solo disponendo anche di strumenti per imporre, dove necessario, le proprie scelte, l’Unione europea sarà più credibile, autonoma e capace di difendere davvero i valori in cui crede.

Non si tratta solo di investire risorse ma di compiere un processo, istituzionale e politico, per realizzare un tetto europeo della difesa, un esercito continentale

Non si tratta solo di investire risorse (certo fatalmente tolte ad altri settori) ma di compiere un processo, istituzionale e politico, per realizzare un tetto europeo della difesa, un esercito continentale, una delle gambe che ancora manca all’Unione. Per fissare, ad esempio, chiare regole per il suo ingaggio e norme per le armi di nuova generazione (i droni). Senza questo passaggio – che necessariamente dovrà tener presente la necessità di un controllo democratico delle forze armate continentali – l’Unione rischia di non essere protagonista del mondo nuovo che si sta venendo a definire.

E non potrà contribuire, quindi, alla formazione di un nuovo ordinamento internazionale che provi, nuovamente, a debellare la guerra come strumento per la soluzione delle controversie tra Stati. Un ordinamento nel quale, tra i diversi poli che stanno emergendo, l’Europa provi a mediare e a far rivivere nuovamente quell’idea di civitas maxima che è forse uno dei lasciti della nostra storia per cui vale la pena combattere. Per farlo bisogna esserne all’altezza.