«L’infanzia di tutti è una specie di cannocchiale collegato a un microscopio, ma il mio strumento esplora la notte della Shoah, lo sterminio hitleriano, la catastrofe di quando ero bambino, i tempi lontani in cui si perse nel nulla e senza motivo l’esistenza di tante persone amate».

Ho conosciuto Aldo Zargani in occasione dell’uscita del suo primo libro, Per violino solo, da cui queste parole sono tratte, e da allora non l’ho più perduto. Quando ieri mattina mi hanno detto della sua morte ho ripensato al nostro ultimo incontro bolognese e a quando, al telefono, pochi mesi fa, ho sentito in lui incrinata per la prima volta quella vena di irrinunciabile allegria che solo con superficialità poteva essere scambiata per umorismo ebraico. Quel piccolo capolavoro era uscito al Mulino subito dopo il suo pensionamento dalla Rai, dove aveva lavorato per quarant’anni esatti, entrato nel 1954 a Torino, precisamente il 2 gennaio, in via Arsenale, allora sede della Direzione generale, come lui stesso ricorda nel libro di racconti pubblicato da Marsilio tre anni fa.

Per violino solo (che ha come sottotitolo La mia infanzia nell’Aldiqua, 1938-1945) ha in copertina la foto di Aldo e del fratello Roberto che si tengono per mano sulla spiaggia di Finalmarina. È il 1938, l’anno delle leggi razziali. Quella stagione terribile è raccontata dal bambino che, con la sua famiglia, riesce a sfuggire all’Olocausto, diversamente da tanti altri, ma che per tutta la vita resterà segnato dall’avere trascorso l’infanzia durante gli anni del terrore e della persecuzione. Le parole si infilano l’una dietro l’altra con un’armonia straordinaria e, sembra incredibile a dirsi, con una leggerezza che resta tale anche quando gli episodi sono drammatici.

Il padre, violinista prestato alla viola e impiegato presso l’orchestra dell’Eiar, perde il lavoro. I bambini sono esclusi dalle scuole del Regno. Restano, tuttavia, bambini, e la memoria del sessantenne che riporta in prosa le vicende di quei sette anni sono colme di dolore e di paura ma anche di situazioni tipicamente infantili, tanto da permettere di rimodulare il peso di quell’esperienza.

Due anni dopo il primo libro – tradotto in tedesco per Fischer (“nella lingua di Goethe ma anche di Himmler”), in inglese, in spagnolo, in francese, ne seguì un secondo, sempre per il Mulino, Certe promesse d’amore; e, nel 2017 per Marsilio, i brevi testi narrativi di In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri).

Ma molti sono stati i suoi interventi su riviste, anche sul "Mulino", sul bimestrale e sul sito, dove rispondeva sempre con favore alle sollecitazioni che gli venivano portate, senza ritirarsi di fronte a questioni politiche anche spinose, che vedevano la sua Israele in difficoltà e che lo hanno portato a esporsi su posizioni spesso tutt’altro che apprezzate in seno all’ebraismo italiano.

Nel 2011, ritornando agli anni di Per violino solo, scriveva: «Nel febbraio 1945, nella mia vallata vicina ai confini della Francia, avevamo superato tutti i pericoli, anche quello dei cosacchi al servizio dei tedeschi. E invece ne arrivò un altro, un nuovo terrore: i francesi colmi d’ira per la pugnalata alle spalle del 1940 nell’immaginario dei montanari scendevano la vallata in cerca di vendette. E allora la mia mamma mi insegnò le prime parole di francese. Dovevo ripeterle se avessi incontrato un maquis: “Je suis juif, je suis juif, je suis juif”. Nella barca a vela naufragata a Brindisi, un ragazzo afgano ripete le sole parole italiane che conosca: “Io ho 16 anni, io ho 16 anni, io ho 16 anni”. Forse quelle parole gliele ha insegnate la sua mamma, ma certamente quel ragazzo è mio fratello».

La fortuna di avere conosciuto di persona gli autori che si sono amati si riscopre nel giorno della loro morte, quando, rileggendoli, li si incontra di nuovo. Così, forse, per sempre. Chissà che cosa direbbe Aldo dell’essersene andato il 20.10.2020: ora che non è più fra noi me lo immagino a giocare sul significato di questi numeri in equilibrio e a ridere anche di questo.