La Morte nera della metà del XIV secolo, insieme alle sue periodiche ricomparse che durarono fino al XVII secolo in Europa e al XIX secolo in Medio Oriente, fu forse la più nota delle grandi pandemie della storia, ma nient’affatto l’unica. Quando finalmente essa iniziò a regredire in Europa, le traversate dei galeoni spagnoli dell’Atlantico riversarono una serie di pandemie altrettanto devastanti, e forse ancora più catastrofiche, sul Nuovo mondo.

Da quando l’innalzamento del livello del mare aveva interrotto la connessione attraverso lo Stretto di Bering tra Alaska e Siberia, alla fine dell’ultima era glaciale, le popolazioni e gli ambienti patologici dell’Antico e del Nuovo mondo si erano sviluppati indipendentemente. Interagendo con una gamma più ampia di animali infetti da agenti patogeni rispetto alle popolazioni delle Americhe, gli abitanti dell’Afro-Eurasia erano costantemente esposti a malattie infettive spesso fatali come il vaiolo, il morbillo, l’influenza, la peste, la malaria, la febbre gialla e il tifo. In epoca tardomedievale la progressiva «miscelazione» dei vari ceppi di malattie «regionali» del Vecchio mondo sulla scia dei contatti prima commerciali e poi militari, che al contempo ne avevano assicurato la massima diffusione, fece sì che molte di queste patologie mortali diventassero endemiche.

Al contrario, i nativi americani vivevano in un contesto meno compromesso e non avevano conosciuto alcuna precedente esposizione ai flagelli del Vecchio mondo. Esplorazione e conquista inaugurarono quello che Alfred Crosby ha chiamato lo «scambio colombiano», contatti transoceanici che rapidamente introdussero nelle Americhe una pletora di infezioni letali. E anche se il Nuovo mondo restituì il favore inviando la sifilide dall’altra parte dell’Atlantico, i patogeni che dall’Europa sbarcarono nelle Americhe furono assai più vari e catastrofici.

Il vaiolo e il morbillo furono le malattie più devastanti introdotte dagli europei: da tempo endemiche sotto forma di morbi della prima infanzia nel Vecchio mondo, esse colpirono in forma epidemica il Nuovo. Per quanto molti marinai fossero stati esposti a queste malattie durante l’infanzia e ne fossero quindi protetti da adulti, occasionali portatori sani parteciparono alle spedizioni transatlantiche. L’influenza, il terzo grande killer, non produce alcun effetto di immunizzazione negli adulti. Queste tre malattie erano le più infettive, potendo essere trasmesse per mezzo del contatto fisico o dei fluidi corporei. Altre, come la malaria, il tifo e la peste, richiedevano l’introduzione di vettori adatti: zanzare, pidocchi e pulci, rispettivamente. Ma per questo era solo questione di tempo.

Nel volgere di un anno dal primo viaggio di Cristoforo Colombo le infezioni iniziarono a interessare tragicamente il primo approdo europeo, l’isola di Hispaniola, la cui popolazione indigena si ridusse da centinaia di migliaia a 60.000 unità nel 1508, a 33.000 nel 1510, a 18.000 nel 1519 e a meno di 2.000 nel 1542. Epidemie in serie spazzarono via i nativi dei Caraibi raggiungendo ben presto la terraferma. La prima pandemia di vaiolo colpì nel 1518, devastando le isole, e nel 1519 causò un’altissima mortalità tra gli aztechi e i maya della Mesoamerica. Il suo impatto fu tale che gli aztechi sopravvissuti, da allora, contarono il tempo a partire dalla sua apparizione, riconoscendola come evento epocale che inaugurò una nuova era di terrore. Trasmesso per contatto e incurabile, il vaiolo colpì le popolazioni vergini con la massima forza. Nelle parole di un osservatore azteco:

Dilagò su di noi: grande sterminatrice di gente. Alcuni li coprì in ogni parte del corpo, nel viso, nel capo, nel petto. Era morbo assai mortifero. Molti per esso morirono. Nessuno più poteva camminare, potevano soltanto rimanere distesi nel letto. Nessuno si poteva muovere, né girare il collo.

Infuriando in maniera incontrollata, l’epidemia aprì la strada alla conquista spagnola: come Bernardino de Sahagún notò a proposito della conquista della potente capitale azteca di Tenochtitlán,

le strade erano così piene di gente morta e malata che i nostri uomini non facevano che camminare su dei corpi.

Nel giro di pochi anni il vaiolo si diffuse rapidamente e nel 1520 raggiunse l’impero andino degli inca, dove mieté un numero impressionante di vittime, compreso probabilmente il sovrano, Huayna Capac. La seconda grande pandemia iniziò nel 1532, questa volta causata dal morbillo. Ancora una volta, le perdite furono enormi e si estesero dal Messico alle Ande. Un’epidemia particolarmente grave, probabilmente di tifo, devastò la Mesoamerica centrale tra il 1545 e il 1548. In seguito parecchie malattie apparvero in simultanea, ad esempio attorno al 1560, quando sembra aver avuto un ruolo importante l’influenza. I disastri si moltiplicarono culminando nella grande pandemia del 1576-1591, durante la quale un’intera raffica di epidemie decimò la popolazione rimanente, prima di tifo e successivamente di una combinazione di vaiolo e morbillo (1585-1591): uno degli eventi più violenti a tutt’oggi.

Le epidemie continuarono per tutta la prima metà del XVII secolo, probabilmente con una forza ridotta e una grande variabilità regionale, ma tuttavia altamente dirompenti. Sebbene la mortalità di massa e le sue gravi conseguenze favorissero l’avanzata spagnola, i nuovi governanti cercarono presto di arginare la situazione e alla fine del XVI secolo misero in campo più medici e imposero quarantene, nella speranza di preservare una forza lavoro indigena che potesse essere sfruttata. Gli effetti di tali misure dovettero essere minimi nella migliore delle ipotesi: le epidemie si susseguirono a ondate, circa una per generazione, e per i primi centocinquant’anni circa il numero delle vittime diminuì solo marginalmente. Inoltre, la stessa violenza della conquista, attraverso i molteplici shock economici, sociali e politici che inflisse alle popolazioni indigene, ben difficilmente avrebbe potuto non esacerbare il dramma di una così diffusa mortalità.

L’impatto demografico cumulativo fu indubbiamente catastrofico. L’unica vera domanda riguarda l’entità delle perdite in termini di vite umane, problema che ha messo all’opera generazioni di studiosi, ma che è complicato da affrontare per l’assenza di informazioni attendibili sui livelli demografici antecedenti il contatto con gli europei. Solo per il Messico, in letteratura è stata proposta una riduzione cumulativa compresa tra il 20 e il 90% circa. La maggior parte delle stime colloca le perdite totali a oltre la metà della popolazione. Sembra ragionevole concludere che i livelli di mortalità associati alla Morte nera dovrebbero essere considerati il minimo per il Nuovo mondo. L’impoverimento demografico complessivo di almeno il 50% sembra probabile per il Messico, mentre è lecito pensare a percentuali più elevate in aree circoscritte.

 

[Riproduciamo qui le prime pagine del capitolo XI del volume di Walter Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, Il Mulino, 2019, rd. 2022. A questo link è possibile ordinare il volume.

Scheidel è stato il protagonista della XXXV Lettura del Mulino, tenutasi a Bologna il 23 novembre 2019. Il testo del suo intervento è pubblicato sul numero 1/2020 della rivista: a questo link è possibile acquistarlo in formato pdf].