Notte tra il 27 e il 28 ottobre 1922. Due camicie nere, un opportunista e un illuso, stanno per raggiungere Roma, ma un ripensamento dell’ultimo momento li fa dubitare dell’impresa. Litigano con il comandante del manipolo, lo tramortiscono, scappano. Incrociano una linea ferroviaria. Bisogna scegliere, dichiara uno dei due: “O Roma, o Orte!”.
È una delle ultime sequenze di La marcia su Roma di Dino Risi, gli attori che interpretano i due ardimentosi sono i perfetti (inutile cercare altri aggettivi) Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Il film esce nel 1962, l'anno di approvazione di una nuova legge sulla censura cinematografica che svuota di senso il sistema di incentivi, accomodamenti e misure repressive che aveva obbligato nel dopoguerra sceneggiatori, produttori e registi a complessi giochi di equilibrio per rappresentare temi ed episodi sensibili della storia nazionale, come appunto tutto ciò che riguardava il precedente regime. Fino al 1959-1960, stagione spartiacque in cui escono La grande guerra, La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli, un film come La marcia su Roma sarebbe stato semplicemente impensabile. Alla Direzione generale dello Spettacolo, organismo dipendente dal ministero del Turismo e dello Spettacolo e competente per tutte le questioni relative alla disciplina del cinema, sono ancora in servizio una serie di funzionari installatisi durante il Ventennio.
“O Roma, o Orte!”, la cui paternità pare vada attribuita a Mino Maccari, non è quindi solo una delle battute più felici del cinema italiano, ma una sintesi fulminante dell'atteggiamento con cui tutta la commedia all'italiana – che si sviluppa proprio in quegli anni – guarda alla storia: un passo di lato, senza sminuirla, ma togliendo qualcosa che cambia il senso al tutto (solo una M maiuscola, ma meglio non sovrainterpretare). Non è la morte l'alternativa, ma Orte; non è uno scontro tra assoluti, ma una scelta tra possibili destinazioni per la gita domenicale, magari su uno di quei treni popolari promossi dal regime. Perché anche quando una cosa è seria in fondo non lo è mai del tutto e il carattere nazionale, qualunque cosa sia, nell’Italia della commedia viene fuori in questi scarti e nell’incapacità tipica dei soggetti di adeguare le aspirazioni alle azioni.
Quello del distanziamento ironico o grottesco è, se non l’unico, sicuramente il registro più usato nel cinema italiano per raccontare l’affermazione del fascismo e in modo particolare il trauma della Marcia su Roma, tanto che lo si ritrova in buona parte delle commedie realizzate dagli anni Sessanta, ma anche in operazioni basate sul montaggio di materiali di archivio e animate da una condanna storica e ideologica rigorosa, come All’armi, siam fascisti! (Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Lino Miccichè, 1962). Altri film hanno impiegato il filtro della patologizzazione del fascismo, come accade nel notevole e poco conosciuto Fascista di Nico Naldini, che mette in scena la relazione di seduzione tra leader e masse all’insegna di un desiderio sessuale mortifero, infantile e strabordante che richiama il Gadda di Eros e Priapo e ovviamente il Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). L’idea del fascismo (e soprattutto del suo capo) come agente maligno di seduzione torna poi nelle storie dedicate alle origini politiche di Mussolini, come Vincere (Marco Bellocchio, 2009) o la miniserie televisiva Il giovane Mussolini (Gianluigi Calderone, 1994).
Quello del distanziamento ironico o grottesco è, se non l’unico, sicuramente il registro più usato nel cinema italiano per raccontare l’affermazione del fascismo e in modo particolare il trauma della Marcia su Roma
Minoritario è invece il taglio celebrativo del fascismo e in particolare della sua affermazione cruenta, che troverebbe in teoria nella Marcia su Roma il più potente generatore di immagini e riferimenti. Le ragioni sono ovvie nel dopoguerra e meno ovvie negli anni precedenti: il regime si interessa organicamente al cinema (e agli altri mezzi di comunicazione di massa, vedi la radio) solo a partire dai primi anni Trenta e in quella fase di consolidamento del consenso ha poco interesse a riproporre le spedizioni punitive, l’olio di ricino e tutto l’armamentario tematico delle origini. Nel Ventennio, grazie anche all’accorta politica culturale di dirigenti della cinematografia come Luigi Freddi, che diffidano dell’efficacia della propaganda diretta, sono pochi i film di finzione – il discorso è in parte diverso per cinegiornali e documentari – che celebrano in maniera trasparente il fascismo. Tra questi, poi, pochissimi e piuttosto sfortunati sono quelli che mettono al centro lo squadrismo e la Marcia su Roma: da Il grido dell’aquila (Mario Volpe, 1923), tra i primi a costruire una equivalenza visiva tra squadristi e garibaldini, a Vecchia guardia (Alessandro Blasetti, 1934), in cui la rappresentazione diretta degli scontri tra socialisti e fascisti nella provincia del primo dopoguerra irritò i dirigenti del cinema fascista, passando per Ragazzo (Ivo Perilli, 1933), storia di redenzione di un piccolo criminale di borgata grazie alle organizzazioni giovanili del regime, che fu addirittura bloccato dalla censura ed è a oggi perduto.
Tanto nel passato quanto in anni più recenti, il cinema italiano ha preferito, o si è potuto permettere, rappresentazioni del fascismo, e soprattutto dei suoi aspetti più violenti e distruttivi, filtrate dal registro dell’irrisione e della patologizzazione, mentre ha dato molto meno spazio alla cronaca e a un racconto aderente agli eventi e agli attori storici, come invece la tv nazionale ha offerto, per esempio, di processi come la lotta armata o la diffusione di sostanze stupefacenti negli anni Settanta (La notte della Repubblica, Eroina S.p.A.).
In questo panorama Marcia su Roma (2022), diretto dal critico e documentarista Mark Cousins, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia e in sala dal 20 ottobre, costituisce una piccola, generosa e non del tutto riuscita eccezione. La prima parte del film è occupata da una di sorta di close reading di A noi! Dalla sagra di Napoli al trionfo di Roma (Umberto Paradisi, 1922), instant movie di propaganda realizzato e distribuito a ridosso della Marcia (chiede il visto di censura l’8 novembre '22 e lo ottiene nello stesso giorno). Cousins e il co-autore Tony Saccucci analizzano, in molti passaggi inquadratura per inquadratura, A noi! e ne rivelano così i trucchi del mestiere, l’uso mistificatorio del linguaggio cinematografico. Le stesse inquadrature montate varie volte, gli ambienti ripresi da più macchine da presa, la reticenza nella messa in quadro degli spazi e l’elisione di dettagli indesiderati (il fango, la pioggia) hanno l’effetto di moltiplicare l’impatto visivo di folle che non sono così oceaniche, di alludere a fatti che nella realtà non avvengono, come la salita degli squadristi all’Altare della Patria. I fermo immagine rivelano la presenza o le tracce degli ispiratori di Mussolini e di tutti coloro che, mossi da interessi sociali ed economici precisi, si sono illusi di guidarne la traiettoria. Cousins e Saccucci mostrano come questo cinema, apparentemente rozzo e diretto, non rappresenti l’evento, ma lo costruisca secondo una retorica precostituita.
Il racconto delle origini del fascismo e delle sue conseguenze fino ai giorni nostri avviene intrecciando diversi tipi di materiale, oltre al film di Paradisi: documentari e cinegiornali Luce, film di finzione, riprese di attualità, inserti di commento indiretto in forma di fiction affidati al primo piano di Alba Rohrwacher, che interpreta una sorta di donna media prima affascinata e poi schifata dal regime. Le scelte dei film di finzione non sono banali (tra gli altri Una giornata particolare di Ettore Scola, È piccerella di Elvira Notari e soprattutto Il potere di Augusto Tretti), il contrasto tra la magniloquenza della propaganda fascista e le immagini odierne, che tornano sulla geografia romana mostrandone l'aspetto quotidiano, distende il ritmo del film senza proporre paralleli interpretativi fittizi.
Nel complesso Marcia su Roma non sembra distaccarsi dalla tradizione del cinema italiano su questi temi e in particolare fa sua una versione aggiornata dell’ipotesi del fascismo come psicopatologia sessuale
Ma nel complesso Marcia su Roma non sembra distaccarsi dalla tradizione del cinema italiano su questi temi e in particolare fa sua una versione aggiornata dell’ipotesi del fascismo come psicopatologia sessuale. L'analisi di A noi! e più in generale dell’avvento del regime è condotta con la fiducia del positivista sicuro che la dissezione del testo porterà all'emersione di un rimosso tanto latente quanto ben evidente se si possiedono gli strumenti per rivelarlo. La verità è in mano all’analista. E questo rimosso ha chiaramente a che fare con il maschilismo, che diventa così la dimensione prevalente – anziché una delle componenti – del fascismo più o meno eterno. Ancora più che le immagini è l’onnipresente commento sonoro (Cousins riesce perfino a zittire il Duce) a insistere su una rappresentazione del fascista come giovane maschio bianco il cui desiderio represso di conquista si traduce in azione politica inevitabilmente violenta verso qualunque corpo non conforme. Il modello citato direttamente è Marcello de Il conformista (Bernardo Bertolucci, 1970) e la terapia proposta per questa malattia riecheggia le soluzioni immaginate da Wilhelm Reich: la liberazione degli istinti, il divertimento e l’estroversione salvano l’individuo e quindi la società dalle pulsioni dominanti e distruttrici. L’aspetto paradossale della condanna di Cousins però è che finisce per fare proprie – sia pure invertendone la connotazione – le parole chiave della propaganda fascista: la virilità, la potenza, il fascismo come via italiana per affrontare le crisi della modernità. Il raccordo con l’attualità politica internazionale, ad esempio, è operato nell’ultima parte del film con un montaggio di immagini di eventi e leader contemporanei (dall’assalto al Campidoglio all’attuale presidente del consiglio italiano, passando per Orban e Le Pen) che ha l’effetto di sottrarre specificità storica al fenomeno e di espanderne i confini oltre lo spazio e il tempo dell’Italia del Ventennio. Come ha notato Andrea Minuz sul "Foglio", la Marcia diventa così una specie di paradigma del made in Italy, un format esportabile ovunque e con successo.
Il film ha fiducia nella capacità del cinema di metterci in guardia rispetto ai pericoli di una politica autoritaria. Ne ha meno nella capacità delle immagini di offrire significati proprio in quanto immagini, di veicolare – riprendendo una categoria di Pierre Sorlin – il visibile di una certa epoca, ciò che una società ritiene possa essere rappresentato senza necessità di spiegazioni e giustificazioni sullo schermo. Non è un senso dato e acquisito, è un significato relazionale, che procede per salti e lapsus, cambia al variare delle condizioni storiche e culturali. Ai bordi di molte inquadrature di A noi! compaiono spesso donne in camicia nera, squadriste il cui entusiasmo non sembra inferiore a quello dei colleghi maschi. Sembrano fuori posto, ma lo sono veramente? Quali motivazioni le portano lì? Come si concilia la loro presenza con il virilismo della retorica fascista? Se non fossimo così immersi nelle contraddizioni del contemporaneo forse non ci faremmo caso alla stessa maniera. Ma Marcia su Roma non si pone la questione e perde così l’opportunità di affondare nelle ambiguità del fenomeno, ed è chiaramente un’occasione persa non solo per il film, ma per ciascuno di noi.
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