Di solito non diffondo immagini “forti” attraverso i social. Credo sia una forma di rispetto nei confronti dei miei interlocutori. Chi è ben informato sugli orrori del mondo ha il diritto di non essere costretto a esporsi continuamente a immagini che non fanno altro che ribadire ciò che già conosce.Chi non ne è consapevole non trae necessariamente beneficio da un’esposizione continua alle testimonianze della malvagità umana. Temo anzi che ci sia il rischio concreto che l’eccessiva consuetudine con immagini di brutalità, violenza, distruzione e morte possa alzare la tolleranza nei confronti di questo tipo di azioni, invece di muovere gli animi.

Vedere un bambino morto sulla spiaggia forse commuove. La stessa immagine esposta di continuo, riprodotta come parte di opere d’arte, trasformata in simbolo, può perdere il legame che in origine aveva con un evento concreto, con la vita (o la morte) di una persona, diventando semplicemente un’icona. Oltretutto, contrariamente a quel che si pensa, le immagini non sono affatto più eloquenti delle parole. Lo sono soltanto se analizzate, spiegate, messe in un contesto che aiuti a mettere a fuoco il giudizio morale. Altrimenti, come semplici immagini, esse sono altrettanto sospette delle parole. Facilmente manipolabili – “editabili” in modo da raccontare una storia diversa da quella che in origine pretendevano di rappresentare.

Queste cose accadevano molto prima della rivoluzione informatica. Lo sappiamo bene dalla storia dello stalinismo. A essere cambiata, rispetto ai tempi in cui Trotsky scompariva dalle foto della rivoluzione perché non era più riconosciuto dal regime bolscevico come uno dei suoi leader, è solo la facilità con cui si possono realizzare le manipolazioni. Oggi il falso storiografico vive nell’epoca della sua massima riproducibilità tecnica. Tutti siamo quindi di continuo esposti a immagini di cui potremmo dubitare.

Nonostante tutte le perplessità che ho esposto finora, oggi ho diffuso un breve video girato dai volontari di Proactiva Open Arms, una delle tante organizzazioni attive nel Mediterraneo per il soccorso dei migranti in stato di difficoltà. Pochi istanti che mostrano il salvataggio di una donna da una scialuppa in procinto di affondare. Insieme alla donna si distinguono chiaramente due cadaveri: quello di un bambino e quello di un’altra donna.Secondo gli attivisti di Open Arms si tratta di persone lasciate andare alla deriva da una motovedetta della Guardia costiera libica perché avevano rifiutato di farsi ricondurre nel Paese nordafricano. Come prevede l’accordo sui respingimenti che le precarie autorità libiche hanno concluso con il governo italiano. In altre parole, queste tre persone sarebbero state abbandonate al proprio destino, che per due di loro è stata la morte, e per la terza sofferenze che potrebbero risultarle fatali, per eseguire un accordo di cui ciascuno di noi, in quanto cittadino italiano, è indirettamente responsabile.

Ecco perché ho deciso di diffondere l’immagine. Perché essa è un elemento di prova in un processo in cui io, come ciascuno di voi, sono imputato. Per non aver fatto tutto il possibile per impedire che eventi del genere accadano. Per non essermi opposto, come avrei potuto e dovuto, in quanto cittadino, intellettuale, direttore di questa rivista, a una politica che non ha una giustificazione morale, e di cui presto o tardi saremo chiamati a rispondere. Gli unici che possono chiamarsi fuori da questa responsabilità sono coloro che in questi mesi hanno lavorato per salvare vite umane, in mare e sulla terra ferma. Attivisti, marinai, medici, semplici cittadini che hanno deciso di non girarsi dall’altra parte e di fare qualcosa. Scrivendo di quel che accade, parlandone in tutte le occasioni che si presentano, prestando la propria opera su una imbarcazione impegnata nelle operazioni di soccorso, donando fondi a chi si impegna in queste attività, facendo il proprio dovere o impegnandosi non avendo alcuna obbligazione legale, solo perché è giusto farlo. Se il nome e l’immagine dell’Italia non saranno per sempre sporcate dal sangue delle persone che stanno morendo nel Mediterraneo, lo dovremo a loro.

Ma la politica, mi direte, l’opinione pubblica, i populisti da combattere… La politica richiede compromessi, ma i compromessi marci, moralmente corrotti, prima o poi si pagano. Forse non nel prossimo sondaggio, o quando ci saranno nuove elezioni, ma nella erosione costante e infine inarrestabile della nostra credibilità morale. Un valore non misurato dalle agenzie di rating, ma nutrito e alimentato dalle azioni di chi ha deciso di mettersi in gioco e di impegnare le proprie energie contro le violazioni dei diritti umani di cui la maggior parte di noi ha scelto di essere complice. Queste persone oggi dovrebbero essere al fianco di chiunque alimenta ancora qualche speranza per il futuro del nostro Paese, di chi vuole affrontare a testa alta il giudizio dell’opinione pubblica internazionale e della storia.

[Ph.: Juan Medina / Reuters]

 

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