Nella sera di venerdì, un funzionario statunitense sotto anonimato ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero raccolto informazioni di intelligence secondo le quali la Russia sarebbe pronta a invadere il territorio ucraino entro domani. La Casa Bianca ha poi dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti non sanno se questa decisione sia effettivamente confermata, e nella telefonata intercorsa sabato fra il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov e il segretario di Stato americano Antony Blinken si è ribadito che la strada diplomatica rimane aperta. Ciononostante, questa svolta nel conflitto in corso fra Russia e Ucraina, e fra Russia e Stati Uniti, ha portato a una improvvisa e violenta escalation.

Gli Stati Uniti hanno ordinato l'evacuazione di gran parte del loro personale diplomatico presso l'ambasciata di Kiev e hanno annunciato la sospensione di tutti i servizi consolari. Anche Israele, Australia e Giappone hanno rimpatriato parte del proprio personale diplomatico residente nella capitale ucraina, mentre i Paesi della Ue mantengono una linea più morbida, consigliando il ritorno in patria ai propri cittadini al momento in Ucraina, ma lasciando aperte ambasciate e consolati. Poco dopo la diffusione della notizia per cui la stessa Russia avrebbe rimpatriato i propri diplomatici, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy ha smentito tale notizia, invitando alla calma. Quest’ultima posizione è stata più volte ribadita dal governo ucraino: mentre sui media occidentali rimbalza la notizia di un’imminente offensiva russa su larga scala, Zelenskiy chiede di «evitare azioni destabilizzanti che seminano il panico», poiché non è stata al momento fornita al governo ucraino nessuna prova in merito all’attacco di mercoledì.

Se la Russia attaccherà, gli Usa potranno affermare che il mondo era stato avvertito. Se non ci sarà un attacco, Biden emergerà come il leader che ha fatto indietreggiare Putin: un colpo decisivo per i Dem in vista dei Midterm

L’Occidente non sembra però accogliere questa richiesta, e i media statunitensi continuano quella che è a tutti gli effetti un’offensiva mediatica. Commenta Dmitriy Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center, un think tank affiliato regionale del Carnegie Endowment for International Peace: “La Casa Bianca ha adottato una strategia eccellente. Se la Russia attaccherà, gli Usa potranno affermare che il mondo era stato avvertito. Se non ci sarà un attacco, Biden emergerà come il leader che ha fatto indietreggiare Putin: un colpo decisivo per i Dem in vista dei Midterm. Il disastro in Afghanistan sarà presto dimenticato. Tutta la politica è locale”.

Un punto cruciale che sta venendo tragicamente trascurato in queste ore, infatti, è il fatto che gli Stati Uniti sono parte attiva in un conflitto in corso che è a tutti gli effetti una guerra ibrida: segue, cioè, una strategia che estende il campo dello scontro dalle tecniche militari convenzionali fino ad attacchi di stampo cibernetico e mediatico. Vale la pena sottolineare che, indipendentemente dalle intenzioni del governo russo e dalle effettive operazioni di spionaggio e di intelligence del governo statunitense, nello scorso fine settimana gli Stati Uniti sono riusciti a sferrare un attacco potente e decisivo, che dunque deve essere considerato come tale.

La posta in gioco per gli Stati Uniti è alta: non un passo indietro è stato fatto sulle richieste avanzate da Mosca alla Nato, e mostrare segni di incertezza ora sarebbe fatale per un governo che sta al momento registrando un forte calo dei consensi in vista di elezioni decisive. È dunque fondamentale che ogni azione intrapresa dal governo statunitense sia legittimata. Grazie a questa svolta, infatti, azioni militari portate avanti nelle ultime ore, come l’invio di tremila soldati statunitensi in Polonia, o l’ingresso nelle acque territoriali croate di una portaerei statunitense, non verranno considerate un’escalation del conflitto ad opera della Casa Bianca, bensì atti di cautela, una reazione a un pericolo ben più grande, di cui al momento non vi è nessuna prova.

Diverse testate statunitensi – come il «Wall Street Journal» – hanno inoltre sottolineato come gli ultimi risvolti del conflitto mettano in luce l'urgente necessità di maggiori finanziamenti statali in materia di sicurezza: provvedimenti, questi, che in tempo di forte crisi economica, sanitaria e sociale sarebbe altrimenti difficile giustificare.

Dunque, per districarsi nel caos mediatico di queste settimane, è utile tenere a mente una serie di elementi. Innanzitutto, lo scontro in atto non riguarda solo Russia e Ucraina, ma anche, e soprattutto, Russia e Stati Uniti. In questo scenario, i Paesi europei mantengono un basso profilo, senza ordire un clamore mediatico pari a quello statunitense, tentando al via della de-esclation e mantenendo aperti i canali diplomatici con la Russia. In queste ore, il cancelliere tedesco Olaf Scholz si trova a Kiev, dove ha specificato che «l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è al momento in agenda», chiedendo sostanzialmente a Zelenskiy di applicare gli accordi di Minsk e rassicurando implicitamente la Russia in merito alle iniziali richieste che gli Stati Uniti avevano ritenuto impossibili da soddisfare. Al tempo stesso, Scholz ha invitato la Russia a unirsi agli sforzi della de-escalation, criticando l’intensificazione degli sforzi militari al confine. Tutto tace invece su un altro dei punti salienti e irrisolti del conflitto: il gasdotto Nord Stream 2, su cui i Paesi dell’Unione europea sono divisi.

In secondo luogo, sebbene continui a esserci sostanziale uniformità nelle azioni dei Paesi Nato, in particolar modo nella strategia diplomatica, non si può dire che gli Stati membri formino un blocco compatto: la minaccia dell’Ucraina di interrompere il transito del gas è inevitabilmente rivolta contro i Paesi Ue, i quali peraltro (Italia in primis) dipendono fortemente dall’area di influenza russa per il proprio approvvigionamento energetico, come la recente crisi kazaka ha ricordato.

Le operazioni mediatiche dei Paesi coinvolti sullo scenario di un possibile conflitto bellico devono ormai essere considerate mosse strategiche al pari di quelle militari

Terzo punto, diretta conseguenza di queste implicazioni è che le operazioni mediatiche dei Paesi coinvolti devono essere considerate mosse strategiche al pari di quelle militari. Le posizioni statunitensi e le notizie divulgate dagli Usa, dunque, non sono una chiave di analisi, bensì rappresentano l’ultima mossa sulla scacchiera di uno dei due avversari. Nello scegliere il prossimo passo, le parti in gioco si trovano a tenere in considerazione non solo il fronte aperto in politica estera, ma anche la situazione interna al Paese, che varia significativamente da Stato a Stato, e che è ugualmente importante per l'attore in questione.

Infine, l’attenzione deve porsi sul grande assente nel discorso pubblico: il popolo ucraino. Mentre gli appelli del presidente Zelenskiy cadono nel vuoto, i cittadini e le cittadine ucraini sono sottoposti a una roboante offensiva mediatica che li vede inevitabilmente vittime quasi certe di un’invasione imminente, in un contesto in cui la stabilità politica ed economica è significativamente indebolita e in cui le operazioni di corsa ai ripari dell'Occidente causano sempre maggiore isolamento. A placare questa circostanza vi è il fatto che, naturalmente, i media ucraini, come quelli russi, sono meno legati ai media statunitensi, e dunque meno permeabili alle loro narrazioni rispetto ai media europei. Ciononostante, facendo divulgazione è necessario domandarsi innanzitutto quale sia la responsabilità di chi informa rispetto alle persone in oggetto, e come si possa mantenere una narrazione al tempo stesso onnicomprensiva e rispettosa.