All’indomani delle recenti elezioni politiche, la stampa internazionale si è sbizzarrita descrivendo l’Italia come un Paese altamente indebitato che potrebbe trascinare l’Europa nell’abisso. Ad esempio, in Germania e in Austria, ma anche in altri Paesi, l’Italia continua a essere etichettata come “spendacciona” e la presunta mancanza di riforme strutturali, che non rispettano il rigore richiesto dalle linee guida europee, è considerata la fonte di tutti i maggiori problemi economici del Paese.

Sicuramente l’Italia ha davanti a sé sfide impegnative. Nel corso degli ultimi decenni la bassa produttività del lavoro e la scarsa vivacità del settore manifatturiero hanno contribuito a un sostanziale declino del tenore di vita. Fino alla fine degli anni Novanta, il reddito pro capite (misura indicativa del tenore di vita di una persona o famiglia) era tra i più alti d’Europa, poco più basso di quello tedesco. Il divario con la Germania si è però amplificato negli ultimi anni (figura 1): oggi il reddito italiano è di 8.000 euro inferiore a quello tedesco e di quasi 3.000 euro più basso di quello francese.

Nonostante lo scenario non roseo, la narrazione sulle cause del lungo declino italiano è stata raramente messa in discussione. “Gli italiani hanno sempre vissuto oltre le loro possibilità: è giunto il momento di adeguarsi!”: posizioni simili sono largamente condivise negli ambienti europei. È quindi doveroso adottare una prospettiva più oggettiva quando si tenta di descrivere e di interpretare il quadro economico italiano. È necessario sfatare i falsi miti che quotidianamente echeggiano sulle pagine dei media internazionali e che restituiscono un’immagine deviata del dibattito sulle politiche economiche da adottare.

È necessario sfatare i falsi miti che quotidianamente echeggiano sulle pagine dei media internazionali e che restituiscono un’immagine deviata del dibattito sulle politiche economiche da adottare

Da un punto di vista puramente economico, un Paese vive oltre le proprie possibilità se è costretto sistematicamente a importare più beni e servizi di quelli che esporta e se, quindi, è costretto ad aumentare il debito estero per finanziare questo deficit strutturale. Se invece la bilancia commerciale, la differenza tra esportazioni e importazioni, risulta in pareggio, è inappropriato affermare che un Paese stia vivendo oltre le sue possibilità, in virtù del fatto che ciò che viene prodotto viene altresì consumato. Se si guarda la bilancia commerciale dell’Italia, questa affermazione risulta oltremodo equivoca, considerando che dal 2012 l’Italia ha sempre registrato un volume di esportazioni maggiore di quello delle importazioni. Usando questa lente, l’Italia sta vivendo al di sotto delle proprie possibilità, e non viceversa.

Il debito del settore privato in Italia è relativamente basso rispetto a quello di altri Paesi Ocse. Anche se il livello del debito totale non rappresenta un problema per l’Italia se paragonato ad altri Paesi, l’attenzione mediatica si concentra sul famigerato rapporto tra debito pubblico e Pil, secondo solo alla Grecia nell’area euro e che ha recentemente superato la quota del 150%. Le ragioni di questi preoccupanti livelli di indebitamento, tuttavia, vanno ricercate nei deficit pubblici accumulati tra gli anni Settanta e Ottanta e nelle difficoltà di ripresa dalle profonde crisi economiche degli ultimi due decenni. Tali deficit sono stati finanziati con l’emissione di debito pubblico che pagava tassi d’interesse molto alti. Quindi, quando questo debito è arrivato in scadenza, lo Stato italiano si è trovato costretto a emettere maggiore debito solamente per ripagare i vecchi interessi. Ma se si considera il deficit primario, che esclude il costo degli interessi sul debito precedente, il budget dello Stato italiano non è mai stato in rosso dal 1992 fino alla recente emergenza pandemica.

Sorprendentemente, perfino i governi di Germania, Austria e Paesi Bassi hanno registrato meno frequentemente livelli di surplus primario paragonabili a quelli italiani. L’Italia non è quindi stata così “spendacciona” come viene spesso descritta. Infatti, ha raccolto sistematicamente più tasse rispetto alla spesa pubblica. I dati del Fondo monetario internazionale mostrano come l’Italia, tra il 1992 e il 2009, abbia intrapreso il sentiero di austerità più severo tra le altre economie avanzate (figura 2). Ne hanno risentito voci di spesa come quella per i servizi sanitari e sociali, che, in termini pro capite, sono molto più basse che in Germania e Francia. È stato quindi l’onere degli alti interessi da ripagare a pesare maggiormente sullo stato delle finanze pubbliche italiane. Inoltre, manovre di bilancio restrittive hanno contribuito all’indebolimento della domanda domestica per beni e servizi, riducendo così le prospettive di crescita economica.

Dunque, a dispetto della narrazione comune, gli sforzi riformatori dell’Italia sono stati significativi. Infatti, negli ultimi decenni, il Belpaese figura tra gli Stati che hanno maggiormente attuato riforme di liberalizzazione del mercato, aderendo più fedelmente alle linee guida di politica economica dell’Unione europea rispetto a Paesi come Germania e Francia.

La flessibilizzazione del mercato del lavoro avviata a partire dagli anni Novanta ha portato a un aumento drastico dei contratti a tempo determinato, a un indebolimento dei sindacati e a un declino dei salari reali rispetto a quelli franco-tedeschi (figura 3). Queste misure non hanno solo contenuto l’inflazione galoppante degli anni Novanta. Il lavoro a basso costo ha anche aumentato la propensione delle imprese a produrre utilizzando un’alta intensità di lavoro, riducendo di fatto gli incentivi a investire in tecnologie più produttive. Gli investimenti del settore privato, infatti, sono un fattore chiave per aumentare la produttività e sono particolarmente rilevanti per settori ad alto contenuto tecnologico. Infine, l’aumento della produttività è un elemento essenziale per la crescita di salari e redditi da lavoro. Le riforme strutturali intraprese dall’Italia hanno quindi avuto l’effetto perverso di indebolirne il sistema produttivo e ridurre la crescita della produttività.

L’opinione pubblica in Paesi come Germania e Austria rimane continuamente stupita dal fatto che, nonostante la sua bassa competitività e produttività, l’economia italiana possa godere di importanti punti di forza. L’Italia, infatti, è la seconda potenza industriale dell’Unione europea (anche considerando il periodo in cui la Gran Bretagna faceva ancora parte dell’Unione), trainata da un forte settore manifatturiero localizzato nel Nord del Paese.

Nello specifico, l’Italia vanta una produzione industriale seconda solo a quella tedesca. Ha sempre esportato più beni industriali di quanti ne abbia importati, persino durante la crisi pandemica, e i settori che trainano il volume delle esportazioni sono l’ingegneria meccanica, la componentistica nel settore automotive e i prodotti farmaceutici. Si tratta di settori che, secondo la classificazione stilata dall’Ocse, sono caratterizzati da un contenuto tecnologico medio-alto o alto.

Nello specifico, l’Italia vanta una produzione industriale seconda solo a quella tedesca e ha sempre esportato più beni industriali di quanti ne abbia importati, persino durante la crisi pandemica

 

Così come per altri Paesi europei, l’Italia fronteggia problemi economici strutturali notevoli, come la polarizzazione tra Nord e Sud e la bassa crescita della produttività, ed elementi disfunzionali nel sistema politico. Dato che l’Italia è la terza economia dell’Unione europea ed è altamente integrata nel mercato unico, gli altri membri dell’Ue dovrebbero avere un forte interesse a osservare lo sviluppo economico del Belpaese. Tuttavia, in Europa sembra mancare uno spirito critico sull’efficacia reale delle politiche economiche attuate dall’Italia, come l’austerità fiscale, responsabile di aver innescato una profonda recessione in seguito alla crisi del debito sovrano, e su come queste misure abbiano favorito il successo di movimenti politici di estrema destra e l’aumento dell’astensione elettorale. Infatti, all’indomani delle elezioni politiche dello scorso settembre, molti osservatori europei si sono limitati ad affermare di essere “preoccupati” per l’Italia e che si assicureranno che i “compiti a casa” vengano svolti con diligenza.

Tra i policy makers europei manca quasi del tutto una valutazione critica su come aiutare i politici italiani a realizzare una strategia di sviluppo – a parte assegnare i fondi del Piano di ripresa e resilienza. Un primo passo richiederebbe l’abbandono di vecchi paradigmi che vedono l’Italia bloccata nella trappola della crescita stagnante e del declino secolare. Ciò richiede uno sguardo più analitico, che tenga in considerazione come i fattori strutturali dell’economia italiana abbiano interagito con i vincoli esterni di politica economica, imposti per perseguire l’integrazione europea e la globalizzazione, accelerando inesorabilmente il declino economico dell’Italia a partire dagli anni Novanta.

Se le politiche di austerity e le riforme strutturali non sono riuscite a portare l’Italia su un sentiero più virtuoso, è necessario sviluppare una strategia d’investimento di lungo periodo che rilanci l’economia italiana con una politica industriale verde. Le politiche macroeconomiche e del lavoro devono riconoscere che strategie basate sul mero abbattimento dei costi hanno avuto effetti negativi sui salari e sulla domanda nazionale e hanno contribuito al declino della produttività del lavoro. È indispensabile una coordinazione a livello europeo su temi che riguardano la contrattazione dei salari e l'attuazione di politiche industriali e fiscali efficaci, anche a costo di stravolgere le vecchie regole del gioco, a cominciare, per esempio, dalla riforma del Patto di stabilità.

 

[Traduzione di Gianluca Pallante]