La fondazione Rocca, insieme all'associazione Trellle, ha pubblicato nel 2012 un ampio studio, sulla base di un numero cospicuo di indicatori statistici, per confrontare strutture e performance della scuola italiana a confronto con altri Paesi, europei e anche non-europei. Si possono nutrire alcune perplessità sulle comparazioni internazionali tra sistemi, ognuno dei quali ha una sua storia; tuttavia, se prese con le dovute cautele, le comparazioni servono appunto per cogliere queste peculiarità e orientare lo sguardo sulle anomalie da cambiare e magari anche su quelle da conservare. A circa dieci anni di distanza, nel 2022, è uscito un nuovo studio: al confronto tra sistemi nazionali si aggiunge il confronto intertemporale, per vedere se nel frattempo è cambiato qualcosa e, se sì, che cosa (il libro è scaricabile dal sito della fondazione e acquistabile dall'editore Giunti-scuola).
Gli indicatori analizzati sono più di 70. Qui mi limiterò a discuterne solo alcuni che mi sembra suggeriscano i temi sui quali dovrebbe essere orientata una politica della scuola che voglia effettivamente riformare un'istituzione dalla quale dipende molto del futuro del Paese. Il primo dato allarmante è che in dieci anni non è cambiato quasi nulla nei deficit strutturali della nostra scuola. Da allora si sono avvicendati una decina di ministri, ognuno dei quali è restato in carica in media un anno, troppo poco per lasciare un'impronta sulla scuola. Ma non è solo una questione di “durata”, quanto piuttosto dell'assenza di un vero dibattito sulla politica scolastica da parte di tutte le coalizioni che si sono avvicendate alla guida del Paese. Voglio indicare solo alcuni problemi cruciali che emergono dai dati di questo lavoro, senza la pretesa che non ce ne siano altri altrettanto importanti.
Primo problema: gli apprendimenti. Partiamo dall'apprendimento della lingua misurato dalla lettura e comprensione di un testo. Il dato è confortante: i bambini italiani della scuola primaria (4° anno di elementare, età 9 anni) nei test di lettura non si scostano dai loro coetanei europei, anzi talvolta ottengono risultati migliori. Lo stesso non avviene nel caso della matematica. Qui i bambini italiani sono un po' sotto agli altri europei e molto sotto ai giapponesi e ai coreani. Ma il dato allarmante emerge quando si confrontano i risultati per gli studenti di quindici anni: sia rispetto alla literacy, sia per la matematica, le prestazioni degli studenti italiani sono sensibilmente inferiori a quasi tutti i coetanei europei, per non parlare degli asiatici. Solo la Spagna qualche volta ci accompagna nell'occupare le ultime posizioni.
Cosa succede nella scuola italiana tra i 9-10 anni e i 15 anni? Evidentemente la scuola primaria funziona piuttosto bene, mentre i problemi si incominciano a porre nella secondaria sia di primo sia di secondo grado. Di mezzo c'è l'adolescenza, ma questa riguarda tanto gli italiani quanto i loro coetanei di altri Paesi. Il problema credo, non sta nei discenti ma nei docenti. Un nodo cruciale sembra essere il passaggio dalla scuola primaria di primo grado a quella di secondo grado, cioè dalle elementari alla media inferiore. Cambia spesso la scuola, intesa come edificio/spazio scolastico, cambia il corpo insegnanti che prima è fatto di maestre/i e poi di professoresse/professori, cambia l'organizzazione scolastica che prima è “comprensiva” e poi è articolata in materie, cambiano anche i discenti che prima sono bambine e bambini e poi ragazze e ragazzi nel passaggio tra infanzia e adolescenza.
L'adolescenza è una fase certamente problematica in cui i giovani sono fortemente plasmabili dall'interazione con figure di adulti non famigliari e spesso gli insegnanti non si rendono conto della grande influenza che in questa fase esercitano sui loro studenti. I risultati mediamente buoni nella scuola elementare e mediamente peggiori nelle scuole medie indicano che l'istituzione non riesce a regolare il passaggio senza creare difficoltà.
È lecito chiedersi se ciò non dipenda dalla discontinuità che si crea tra i cinque anni della scuola elementare e i tre anni della media inferiore e se non avrebbe più senso ripensare all'organizzazione dei cicli scolastici. Lo aveva proposto già più di un quarto di secolo fa la riforma Berlinguer, che non aveva ottenuto sostegno né dalla classe politica né dai sindacati. Il problema però è rimasto e, visti i risultati, sarebbe ora che venisse ripreso. È chiaro che si tratta di un anello debole del sistema educativo e non è semplice proporre delle soluzioni. Però sarebbe utile approfondire come altri Paesi l'hanno affrontato e incaricare una commissione di esperti che faccia delle proposte.
Secondo problema: la formazione degli insegnanti. In questa prospettiva bisognerebbe anche ripensare alla formazione degli insegnanti. Ora non è più come un tempo, anche alle maestre e ai maestri (di maestri maschi ce ne sono troppo pochi) è richiesta una laurea passando per una serie di insegnamenti socio-psico-pedagogici, oltre che per un vero tirocinio. Anche agli insegnanti dei cicli successivi farebbe bene conoscere, oltre alla materia insegnata, anche una buona dose di socio-psico-pedagogia e, soprattutto, un intenso tirocinio nella scuola, sotto la guida di insegnanti formatori esperti e selezionati. La loro selezione presuppone sistemi di valutazione. La questione è, come è ben noto, divisiva. Eppure, in ogni scuola, i dirigenti, il corpo docente e gli stessi studenti sanno benissimo quali sono gli insegnanti professionalmente più preparati e non dovrebbe essere impossibile trovare un metodo di valutazione che massimizzi il consenso e sia accettato da tutti.
Introdurre la figura di insegnante-formatore valorizzerebbe la presenza nella scuola di insegnanti eccellenti che potrebbero trasmettere la loro esperienza ai colleghi più giovani
Gli insegnanti di tutti i cicli e di tutte le materie non si formano solo nelle aule universitarie, ma devono essere addestrati sul campo. Introdurre la figura di insegnante-formatore dovrebbe essere un modo per introdurre una tappa nel percorso di carriera e soprattutto un modo per valorizzare una risorsa straordinaria e cioè la presenza nella scuola di una quota non esigua di insegnanti eccellenti che potrebbero efficacemente trasmettere la loro esperienza e il loro sapere alle nuove leve di colleghi più giovani alle prime esperienze. Insomma, la distinzione netta tra maestri e professori dovrebbe essere sostanzialmente cancellata o fortemente ridotta, con buona pace di sindacati che difendono interessi prevalentemente corporativi.
La carriera degli insegnanti riguarda anche altre due figure che generalmente non compaiono in altri Paesi: la quota molto elevata e crescente degli insegnanti di sostegno per studenti con bisogni educativi speciali (disabili) e la quota di insegnanti a tempo determinato (cioè, precari) o indeterminato (cioè, di ruolo). La seconda distinzione taglia anche trasversalmente la prima, nel senso che ci sono insegnanti di sostegno sia di ruolo sia precari. Non posso qui entrare nella discussione di questi problemi, ma un governo responsabile non dovrebbe evitare di affrontare questi problemi. L'Italia è all'avanguardia nell'educazione dei soggetti disabili, ma la pletora degli insegnanti di sostegno non appare la soluzione migliore e, sull'altro versante, il rischio di una protratta precarietà non attira certo i professionisti migliori.
Terzo problema: la spaccatura territoriale. Tutti gli indicatori utilizzabili confermano ancora una volta la spaccatura territoriale del Paese anche per quanto riguarda il funzionamento della scuola. Le regioni meridionali e le isole sono stabilmente agli ultimi posti per quanto riguarda l'apprendimento della lingua italiana, della matematica e dell'inglese e il divario cresce passando dalla scuola primaria, alla secondaria inferiore e superiore. Gli effetti della chiusura delle scuole per Covid-19 hanno avuto effetti negativi ovunque, ma molto di più al Sud che non nelle regioni del Nord e del Centro. Non sorprende che al Sud e nelle isole ci sia anche il più alto tasso di dispersione scolastica e di giovani (più femmine che maschi) nella condizione di Neet, cioè che non studiano, non sono in formazione e non lavorano. A questo poi si aggiunge il dato ancora più inquietante della dispersione implicita, cioè la quota di coloro che alla fine della scuola secondaria superano solo il livello minimo in italiano, matematica e inglese: sono ben il 16% in Calabria e solo l'1% nella provincia di Trento. Per la popolazione adulta il divario è ancora maggiore.
Non sorprende che al Sud e nelle isole ci sia anche il più alto tasso di dispersione scolastica e di giovani nella condizione di Neet, cioè che non studiano, non sono in formazione e non lavorano
Questo dato ci dice che il problema del Sud non è la scuola, o non è solo la scuola. Non si può quindi neppure sperare che una politica che punti esplicitamente a ridurre il divario educativo possa da sola riscattare il Mezzogiorno. Ci vuole ben altro, anche supponendo un aumento di laureati e diplomati di qualità nelle scuole e nelle università meridionali, il risultato sarebbe soltanto di favorirne l'emigrazione, sottraendo quindi risorse umane di qualità, come avviene da decenni, alla società meridionale. Invece che fucine per l'emigrazione intellettuale, scuole e università dovrebbero poter funzionare da “Centri di servizi culturali”, come proposto più di mezzo secolo fa dall'allora ministro Giulio Pastore, capaci di alimentare programmi di sviluppo.
Si potrebbero comunque individuare specifiche istituzioni formative (ad esempio, gli Istituti tecnici superiori-Academy) calibrate a esigenze ben definite di programmi di sviluppo locali. Si potrebbe inoltre agire sul divario partendo dalla materna e dalla scuola per l'infanzia, la cui frequenza, come dicono numerose ricerche nazionali e internazionali, è fortemente predittiva del successo scolastico successivo. Vi è in proposito un dato allarmante: mentre al Nord e al Centro i posti disponibili negli asili-nido coprono una quota della popolazione tra 0 e 3 anni superiore al 20 %, al Sud e nelle isole si scende a meno della metà, al 9%. Lo stesso vale anche per la fascia 3-6 anni. Non c'è purtroppo solo una carenza di offerta, ma anche di domanda: molte famiglie al Sud evitano di mandare i bambini alle scuole materne e per l'infanzia e questo è uno dei fattori che certo non favorisce l'occupazione femminile. Sia per gli Its sia per la fascia 0-6 anni il Pnrr offre risorse e opportunità che sarebbe insensato non sfruttare al meglio.
Quarto problema: la spesa per l'istruzione. L'Italia spende poco. Dalla scuola per l'infanzia all'università spende il 4 % del Pil contro il 4,9 della Germania e il 5,5 della Francia. Se dal calcolo però escludiamo l'istruzione terziaria, notiamo che per la primaria e la secondaria la spesa pubblica è allineata a quella degli altri Paesi. La spesa per bambino è cresciuta nella scuola per l'infanzia, la spesa per studente nella scuola primaria è piuttosto in linea con gli altri Paesi Ue, mentre nella secondaria siamo solo un poco al di sotto della media europea. Però non basta guardare all'ammontare della spesa riportato alla popolazione scolastica, bisogna guardare anche alla sua composizione e qui incominciano le sorprese: si spende molto per gli stipendi degli insegnanti ma questi sono tra i più bassi d'Europa. Tanti (troppi) insegnanti, pagati (troppo) poco. Nella scuola primaria abbiamo 11,4 alunni per ogni insegnante, in Francia 18,8, in Germania 15,1. Nella scuola secondaria i divari sono meno accentuati, abbiamo 10,5 studenti per insegnanti, in Francia 13 in Germania 12.8.
Ci sono, è vero, alcune ragioni dovute alla natura del territorio – tante piccole scuole in tante zone montane – ma la ragione fondamentale è un'altra: la scuola italiana è servita in parte e da sempre ad assorbire la disoccupazione di molti laureati (soprattutto donne) che non hanno trovato un'occupazione migliore e si accontentano dei modesti stipendi che offre la scuola (sia di stato pubblica sia privata). Con il calo demografico la popolazione scolastica è destinata comunque a ridursi (i figli degli immigrati non bastano a compensare i vuoti che si verranno a creare). Potrebbe essere l'occasione per ripensare da capo all'ampiezza delle classi, alla carriera degli insegnanti e all'adeguamento delle loro retribuzioni agli standard europei.
Conclusioni. La pubblicazione di questo volume è un servizio pubblico alla collettività. Fornisce materiali sui quali i cittadini possono riflettere per valutare i programmi per la scuola dei vari partiti. Non mancano alcuni (pochi) segnali positivi. La quota della popolazione che non ha raggiunto neppure la III media si è ridotta in dieci anni dal 28 al 22 % e la quota di coloro che hanno raggiunto almeno una laurea triennale è cresciuta dal 21 al 29 %. Restiamo però sempre al di sotto della maggior parte dei Paesi europei di riferimento, soprattutto Francia e Germania, mentre competiamo con la Spagna per le ultime posizioni. Il livello culturale della popolazione soprattutto adulta, resta a un livello ancora troppo basso e di questo dovrebbero essere consapevoli coloro che si appellano all'orgoglio nazionale. Quando la classe politica si renderà conto che questi sono i numeri da cambiare?
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