Le recenti elezioni europee – di cui molto si è parlato anche qui – con il calo di partecipazione al voto, il disinteresse ai temi europei nelle campagne elettorali dei singoli paesi, accompagnati dalle crescenti critiche al “deficit democratico” delle Istituzioni europee, insieme al diffondersi di sentimenti euroscettici, hanno acuito la sensazione già serpeggiante di disillusione o almeno di indebolimento della spinta propulsiva rappresentata dal progetto di integrazione europeo. Paradossalmente, oggi che molti obiettivi sono stati raggiunti, sembra che sia sempre più difficile vedere nell’Europa qualcosa di più di una somma di regioni storicamente e culturalmente eterogenee.

Si tende, con ciò, a trascurare il fatto che qualcosa di simile a una “società europea” già esiste e opera. Pur nella pluralità delle sue declinazioni, si è creato, soprattutto nel corso degli ultimi quarant’anni,  un tessuto di relazioni sociali e un insieme di modelli che le regolano che superano i confini nazionali.  In parte stimolate dalla stessa costruzione istituzionale europea, in parte dovute a processi storici endogeni, si sono realizzate  convergenze sociali che fanno dell’Europa qualcosa di peculiare nel mondo sviluppato. Il fatto che si tenda spesso a trascurare questo aspetto, dipende da due fattori. Il primo è la tendenza delle discipline sociali, in particolare la sociologia, a non concepire altra società se non quella  delimitata dai confini degli stati territoriali. Il secondo è la tendenza, speculare alla prima, a pensare che il processo di integrazione europea, sovranazionale, debba ricalcare, nei suoi tratti fondamentali, il processo storico che ha dato vita allo stato-nazione: come fusione di ethnos e di demos, di comunità culturale e di comunità politica. Da qui le lunghe e a volte oziose discussioni sull’ “identità” o sulle radici europee, mentre processi e trasformazioni sociali di portata straordinaria, hanno nei fatti, sotto i nostri occhi, potremmo dire “silenziosamente”, attuato convergenze che non ci saremmo mai immaginati. L’avvento della società dei servizi e della conoscenza ha amalgamato i diversi Paesi Europei, mantenendo – rispetto agli Stati Uniti - un’accentuazione della strutturazione in classi sociali, insieme a disuguaglianze più moderate e una più bassa mobilità. Lo stesso “modello sociale europeo”, basato sull’idea che il mercato non si regola da sé, ma va regolato, è rimasto un carattere distintivo della maggior parte dei Paesi Europei.

Ma è negli stili di vita e nei comportamenti delle popolazioni, in particolare quelle giovanili, che più si rileva una omogeneità di fondo. Non solo l’affinità di gusti e consumi li accomuna, ma una comune importanza attribuita a un insieme di valori e principi che mettono al centro la tutela delle minoranze, il pluralismo, la difesa dell’ambiente, i diritti individuali, così come aspettative elevate rispetto alla democrazia e alle sue istituzioni. Il processo di individualizzazione che ha trasformato sia il modo di rapportarsi alla religione, più disincantato e “personale” rispetto agli Stati Uniti, sia le relazioni interne alla coppia e alla famiglia così come la morale e i ruoli sessuali, rendono i cittadini europei più simili tra di loro, e la società europea qualcosa che in parte già c’è. La sua realizzazione completa è però un compito non delegabile a “tendenze spontanee”, ma attuabile con il rafforzamento di un progetto che inserisca  diversità e convergenze in  un quadro politico unitario, senza dare per scontato che ciò che già c’è sopravviva anche in futuro.