«Sono estremamente preoccupato [per la didattica a distanza]: dai bambini della scuola primaria agli adolescenti delle scuole superiori. Stanno sopportando sulle loro spalle il prezzo più grande di questa pandemia. Perché gli è stato tolto un pezzo della loro giovinezza, della loro vita, della loro crescita. Non c'è sviluppo umano completo, infatti, senza relazioni interpersonali. Penso soprattutto agli adolescenti che vivono nelle grandi città, magari in piccoli appartamenti. È oggettivamente una condizione durissima di sradicamento e di chiusura. Occorre ripensare il loro rientro nella vita quotidiana, farli sentire di nuovo protagonisti e non solo spettatori passivi di una crisi sanitaria così grave. Servirebbe una proposta innovativa per il prossimo anno scolastico».

Questo frammento di una recente intervista – rilasciata il 2 marzo a «Il Messaggero» dal cardinale Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) – mi spinge a sussurrare, con franchezza, la seguente domanda: dopo che negli ultimi vent’anni la comunità scolastica ha subìto quattro riforme (Berlinguer, Moratti, Gelmini, Giannini), un tentativo di riforma fallito (Profumo) e due doverosi aggiustamenti (Fioroni e Fedeli), si sente veramente il bisogno di una «proposta innovativa» per l’anno scolastico che verrà? Soprattutto quando vi è il concreto rischio che la genericità dell’eventuale proposta, o il sottostante desiderio di trasformazione totale, abbia come esito l’ennesimo «gattopardismo» che ben conosce il nostro Paese?

Giusto essere preoccupati per i giorni di didattica in presenza "persi" (nel Sud Italia il doppio del Centro Nord, secondo la ricerca di Save the Children), senza però dimenticare che non sono stati giorni di istruzione "persi" 

Non vi è dubbio che sia giusto essere preoccupati per i giorni di didattica in presenza «persi» (nel Sud Italia il doppio del Centro Nord, secondo la ricerca di Save the Children), senza però dimenticare che non sono stati giorni di istruzione «persi» o addirittura «tempo perso», come invece si continua a titolare o a scrivere sui maggiori quotidiani nazionali. È una questione su cui dovremo ritornare in modo più compiuto, ma non si può non essere d’accordo con Stefano Versari quando afferma che questo tempo pandemico sta offrendo ai nostri giovani anche la possibilità di acquisire importanti «competenze di vita», a partire da quella capacità di «saper reggere» l’urto con «le cose tremende», di cui parla Roberto Vecchioni, sino a «stimolare» in essi – come ribadisce Michela Marzano – «la loro creatività e la loro autonomia riflessiva». In ogni caso, non meno preoccupanti sono e devono essere considerate le varianti del Covid-19 che, per la loro contagiosità, stanno indirizzando il governo italiano (e i presidenti delle Regioni) verso nuove limitazioni della didattica in presenza.

Per tutti questi motivi, crediamo che i vertici della Chiesa italiana avrebbero potuto (o dovuto?) richiamare innanzitutto la politica alle sue responsabilità per i ritardi o gli inadempimenti – che tuttora perdurano – in termini di rafforzamento di trasporti pubblici, sanità, sostegno alle povertà (anche tecnologiche) e alle famiglie con minori a casa (quantomeno alle madri, mediante congedi parentali di astensione anche dallo smart working, oltre che pienamente retribuiti). Evidenziando anche le responsabilità di quei giornalisti e intellettuali che, magnificando nei mesi scorsi le sorti auree e progressive di una scuola futura – e del futuro – tutta (o quasi) a «trazione Dad», anche solo involontariamente hanno contribuito a quei ritardi o inadempimenti.

In secondo luogo, avremmo gradito che i vertici Cei si fossero fatti promotori di tre semplici proposte (che sono ancora in tempo a rilanciare), certo non innovative ma da tempo auspicate e per ora irrealizzate:

1) La prima ha lo stesso valore, ma anche forse la stessa (scarsa) effettiva considerazione, della lotta all’evasione fiscale. Stiamo parlando della necessità assoluta di ridurre drasticamente il numero degli studenti per classe (per le superiori, ad esempio, dall’attuale media di 27 nelle prime classi del biennio e del triennio, a un massimo di 20). Non solo per la prevenzione dei contagi, ma soprattutto perché se si vuole veramente essere inclusivi di tutti i bisogni (speciali, ma anche generazionali: soglie di attenzione sempre più basse, crescenti difficoltà a verbalizzare e ad argomentare compiutamente ecc.) è normale che quello di 20 sia considerato il numero massimo per poter tentare di realizzare una scuola dove nessuno viene sacrificato o scartato. Ne abbiamo parlato diffusamente qui; lo hanno ribadito di recente studiosi come Alessandra Laurenti e maestri innovatori come Franco Lorenzoni – il quale potrà ora, come componente del comitato tecnico, farsene portavoce direttamente con il ministro – e, infine, alcuni presidi di Genova come Gianfranco Spaccini (liceo «M.L. King») – «non farò classi con più di 22 studenti. Se non saranno accettate sarà il ministero a prendersi la responsabilità dei contagi a scuola» – e Pietro Poggio (Istituto «Vittorio Emanuele Ruffini») – «nella circolare, un documento datato che non è stato aggiornato in funzione dell’attuale situazione sanitaria, si parla di classi da 27 a non oltre 32 allievi. Numeri che a oggi andrebbero certamente rivisti al ribasso». Per fare questo, peraltro, basterebbe un articolo inserito in qualche provvedimento d’urgenza, senza doversi attardare nel lungo e complesso iter di un disegno di legge.

2) La seconda proposta, in parte già accennata, consisterebbe nella reale messa a punto della strumentazione tecnologica di base presente in ogni scuola. Perché spesso gli istituti sono forniti anche di una linea ultraveloce, ma tutto il resto è talmente obsoleto da inficiare spesso ogni possibilità di sfruttare al meglio le potenzialità della didattica online. Per non parlare poi delle condizioni – o dell’assenza – dei laboratori afferenti ad alcune discipline, soprattutto (ma non solo) scientifiche. Infine, aggiungerei, l’installazione dei condizionatori per i mesi più caldi, conditio sine qua non di ogni ipotesi di prolungamento o, meglio, ripensamento dei calendari regionali (sempre che dal punto di vista ambientale sia un’opzione praticabile). In tal caso, nei rapporti tra ministero e autonomie scolastiche, bisognerebbe verificare la presenza di norme grazie a cui queste priorità vengano considerate effettivamente tali dai singoli istituti all’atto di utilizzo delle risorse assegnate, e se vi siano procedure semplici e efficaci per segnalare, controllare e correggere eventuali distorsioni locali.

3) La terza proposta – che può sembrare tanto banale quanto ovvia – riguarda una pur minima ristrutturazione edilizia, a partire dalla verniciatura dei muri delle classi – quasi sempre in condizioni pietose – e degli ambienti comuni che, a questo punto, potrebbero finalmente essere personalizzati: se non si vive la scuola in un ambiente, non dico bello, ma almeno (ri)pulito e percepito come personale, come posso sperare che la comunità scolastica che lo abita dia il meglio di sé? Ecologia ambientale e mentale procedono di pari passo. Anche qui sarebbe necessario verificare l’esistenza di norme e procedure di controllo volte a evitare che, fra qualche anno, ci si ritrovi di fronte agli stessi dati sconfortanti offerti dal XX report annuale di Legambiente con Ecosistema Scuola: a sette anni di distanza meno della metà degli interventi finanziati nel 2014 sono stati realizzati.

Mi rendo conto che nelle tre proposte c’è poca poesia e, forse, scarseggia anche la prosa. Avremmo potuto parlare di: 1) classi aperte, scomposte e ricomposte, rovesciate; 2) didattica virtuale, in 3D, 5.0; 3) spazi e aule totalmente ripensati (a partire da quella interessante modalità dello spostamento degli alunni per andare nelle aule afferenti alle singole discipline). Mentre invece – mea culpa – insistiamo con della «noiosa» grammatica. Senza di essa, però, la poesia – ma anche la prosa – resta (se va bene) uno sterile idealismo; se va male, si riduce colpevolmente a «benaltrismo» o «gattopardismo».

Cominciamo allora col mettere in pratica i tre interventi di base indicati. Chi di noi a casa propria o in un qualsiasi altro posto di lavoro non vorrebbe abitare spazi a densità ridotta, esteticamente dignitosi e con gli impianti base in regola? Se tutto ciò si realizzasse ve ne sarebbe d’avanzo – come per i pani e per i pesci di quella storia antica ma sempre attuale…