Come è stato osservato, quella che si è appena consumata in Italia è la peggiore performance del blocco di centrosinistra (sinistra classica + “nuova sinistra”) dal 1948 in poi. Ed è anche il peggior risultato in chiave comparata, considerando le ultime elezioni tenutesi in 20 paesi dell’Europa occidentale (V. Emanuele, M. Improta, M. Boldrini e M. Collini, La peggiore performance della sinistra italiana, Centro italiano studi elettorali, 26.09.2022).

La prima lezione da trarre da questa tornata elettorale è che i partiti di sinistra (moderata e radicale) divisi perdono, specialmente se non accettano una logica coalizionale ampia. Non sarà sfuggito che, sommando i voti di una possibile triade di sinistra-centro (qualcosa di simile al "campo largo" di cui parlava Letta) composta dal terzo polo di Calenda e Renzi, dalla coalizione guidata dal Pd e dai 5 Stelle di Conte, i consensi sarebbero stati maggiori di quelli del centrodestra. La coalizione (im)possibile di sinistra-centro, infatti, avrebbe raccolto 13,8 milioni di voti alla Camera, mentre quella di centrodestra ne ha messi insieme 12,3. Al Senato il pallottoliere del consenso avrebbe restituito un risultato analogo: 13,5 milioni per la coalizione che non c’è (di sinistra-centro) e 12,1 per quella che invece c’è (di centrodestra).

Immaginiamo già l’obiezione. Non tutti i voti si potevano sommare e, in ogni caso, si sarebbe trattato di un “trio inconciliabile”. Gli economisti usano questa locuzione per fare riferimento a elementi che non possono coesistere tra loro. Ma davvero è plausibile ritenere che le divisioni all’interno della sinistra-centro sarebbero state più insolubili delle fratture presenti nel centrodestra, ad esempio sulla politica estera? E, in ogni caso, non valeva la pena tentare di amalgamare i rispettivi elettorati per impedire una sconfitta così cocente?

La seconda lezione che si può ricavare è che, nonostante lo schiacciante successo ottenuto da Meloni, l’Italia non può essere considerato un Paese ideologicamente di destra. Infatti, se si guarda all’autocollocazione sull’asse sinistra-destra degli elettori, negli ultimi 10 anni non si vede né una chiara (e stabile) prevalenza del centrosinistra, né del centrodestra. Gli andamenti sono alterni a seconda degli anni presi in considerazione. Nel 2013 la percentuale della sinistra sfiorava il 45%, sopravanzando di quasi 10 punti quella della destra e di 20 quella del centro. Nel dicembre del 2018 la destra e il centro erano saliti, rispettivamente, al 38% e al 32%, mentre la sinistra era crollata al 29%, seguendo il declino dei consensi per Renzi (E. Mannoni, Italia Paese di destra? Quella del 2018 sì, Centro italiano studi elettorali, 23.12.2018). Ancora lo scorso dicembre, un sondaggio condotto da Demos mostrava un perfetto equilibrio tra gli elettori che si collocavano nel centrosinistra e a sinistra (rispettivamente 18% e 14%) e quelli che si collocavano nel centrodestra e a destra (19% e 13%). Il centro veniva quotato intorno al 9%, ma ancora più significativa era la percentuale di elettori (26%) che rifiutava di collocarsi sul continuum sinistra-destra.

Un secondo elemento interessante, che emergeva dal sondaggio di Demos, evidenziava la maggiore vicinanza e reciproca compatibilità tra gli elettori di centrodestra rispetto a quelli di sinistra. Per intenderci: oltre la metà degli elettori di Forza Italia si sentivano vicini sia alla Lega sia a Fratelli d’Italia (e viceversa). Questa compatibilità politico-ideologica risultava invece più debole tra gli elettori dello schieramento avverso. Tra i votanti del M5S solo il 30% si riteneva vicino a Italia Viva o ad Azione. Si saliva di poco, al 32%, per il Pd. L'antipatia era comunque ricambiata dai sostenitori di Renzi e di Calenda: solo il 9% dei primi e il 12% dei secondi si dichiaravano infatti compatibili con i 5 Stelle. E lo stesso valeva per il Pd (considerato vicino solo dal 17% dei simpatizzanti di Azione e dal 12% di quelli di Italia Viva). L’elettorato maggiormente orientato in senso coalizionale era invece quello del Pd, che dimostrava vicinanza alle altre formazioni con percentuali variabili tra il 45% (verso il M5S) e il 74% (verso Sinistra italiana).

Questi dati, secondo noi, indicano il ruolo giocato da due fattori. Primo: finito l’incapsulamento politico-organizzativo del voto, offerto dai partiti di massa della Prima Repubblica, e venute meno le grandi narrazioni ideologiche del Novecento, l’elettorato italiano è diventato più mobile anche nei suoi riferimenti identificanti, reagendo con alta sensibilità all’offerta politica, programmatica e personale dei vari partiti. Maggioranze di destra o di sinistra, in altri termini, non riflettono più degli orientamenti politico-ideologici stabili e radicati, ma inclinazioni mutevoli a seconda della credibilità dell’offerta che viene proposta.

Secondo: la “logica della distinzione” che è prevalsa in questa tornata elettorale nella sinistra-centro si è tradotta in reciproche antipatie tra gli elettori delle sue formazioni. Proprio il sondaggio di Demos, tuttavia, lasciava emergere che gli elettori di sinistra-centro, pur antipatizzando reciprocamente, erano meno distanti tra loro di quanto lo fossero dai partiti di destra. Da questo punto di vista i leader avrebbero potuto fare molto per ridurre la polarizzazione intra-coalizione che ha caratterizzato questa campagna elettorale: il cosiddetto “fuoco amico” di cui molti si sono lamentati a sinistra, primo tra tutti il leader del Partito democratico.

Maggioranze di destra o di sinistra, in altri termini, non riflettono più degli orientamenti politico-ideologici stabili e radicati, ma inclinazioni mutevoli a seconda della credibilità dell’offerta che viene proposta

La terza lezione da ricavare riguarda, infine, la strategia politico-elettorale delle formazioni della sinistra-centro. Dopo aver proposto e visto naufragare due ipotesi coalizionali, il Pd si è trovato in una crisi di leadership e di strategia. Prima è venuto meno il “campo largo” che includeva il M5S e poi il “campo stretto” che includeva Calenda. Il Pd non solo non è riuscito a trainare e tenere uniti i propri partner coalizionali, ma ha mostrato una notevole indecisione strategica. Su questo punto è difficile non dar ragione a Calenda. Se l’idea che si intendeva promuovere era l'argine contro la destra, non si capisce perché ci sia stata una chiusura così secca e repentina del “campo-largo”. Se invece si intendeva perseguire una coalizione “draghiana”, a che pro allargare a Fratoianni e Bonelli? Sono oscillazioni che in realtà denotano una incertezza di linea politica. La difesa a oltranza del governo Draghi e il senso di responsabilità verso le compatibilità europee hanno di fatto schiacciato il Pd su una posizione percepita da molti elettori come troppo filo-establishment. Ciò ha fatto pagare costi molto elevati a sinistra senza tuttavia garantire guadagni significativi tra l’elettorato moderato.

La difesa a oltranza del governo Draghi e il senso di responsabilità verso le compatibilità europee hanno di fatto schiacciato il Pd su una posizione percepita da molti elettori come troppo filo-establishment

Il Pd dovrà sciogliere, tornando a congresso, un’ambiguità di fondo che lo blocca ormai da troppi anni: intende essere un partito liberal-socialista (anche senza assumere tratti troppo neo-liberisti) che compete verso il centro? Oppure, come a noi sembra più promettente e sensato, intende riposizionarsi su una proposta maggiormente in linea con le socialdemocrazie europee, offrendo una ricetta per il Paese capace di tenere insieme il rilancio dell’economia, la modernizzazione dei beni collettivi e la sostenibilità ambientale e sociale? Un partito, in altri termini, che punti su una “via alta” allo sviluppo, in grado di parlare non solo ai ceti produttivi, ma anche ai lavoratori e a chi è rimasto marginalizzato dalla “via bassa” seguita dal capitalismo italiano. Un modello, quello perseguito dalla nostra classe dirigente, che è stato in grado di alimentare solo un marcato declino economico accompagnato da una altrettanto forte crescita delle disuguaglianze.

E tuttavia, il disastro delle ultime elezioni non può essere imputato solo alle contraddizioni del Pd. Le stesse ambiguità hanno caratterizzato sia il terzo polo sia le formazioni della nuova sinistra. Tutti questi attori sono infatti sembrati più attenti a sparare addosso al Pd che a frenare l’avanzata della destra. Calenda e Renzi dovranno, durante la prossima legislatura, sciogliere il dubbio su cosa intendono fare da grandi: proporsi come aggregatori di un’area di centro che guarda a sinistra oppure altro? Lo stesso vale, infine, per la cosiddetta “nuova sinistra”: quella di Unione popolare, innanzitutto. A chi continua a cullarsi nell’illusione del grande dissolvimento del Pd, che aprirà finalmente le porte ad una rifondazione della sinistra-sinistra è facile obiettare che chi ha perseguito questa strada non è riuscito ad andare oltre a percentuali davvero misere sia nel 2013 che nel 2018. Questo spazio, infatti, sembra destinato a essere presidiato dal M5S, che ha dato prova di interpretare bene una domanda di protezione sociale che viene dal sud e dai ceti sociali meno tutelati. Per Conte la sfida è diversa: deve decidere se continuare a interpretare questo ruolo in chiave populista e protestataria oppure convertire il suo serbatoio di consensi in una strategia di governo del Paese. Insomma la sfida della prossima legislatura, per i partiti di opposizione, si gioca intorno alla capacità di costruire una coalizione plurale di sinistra-centro che sappia parlare al Paese di un futuro possibile.