«Cosa dire del futuro? […] Ci potrà essere un piccolo numero di proprietari estremamente ricchi; la proporzione della popolazione attiva necessaria per gestire produzioni automatizzate ed estremamente redditizie potrà essere piccola; i salari sarebbero quindi depressi; […] torneremmo a un super-mondo fatto di proletariato immiserito e di maggiordomi, camerieri e cameriere [...]. Potremmo chiamarlo il paradiso dei nuovi capitalisti coraggiosi. A me pare una prospettiva terribile. Ma che cosa possiamo fare?». (J. Meade, Efficiency, Equality and the Ownership of Property,Routledge Revivals, 1964, p. 33).

La buona notizia portata dal milione e oltre di votanti delle primarie è che il Partito democratico è vivo e rimarrà in vita. Il messaggio consegnato alla neo-segretaria non è decidere di quanti centimetri spostarsi a destra o a sinistra, né ricercare intese tra gruppi dirigenti di partiti diversi, ma riconquistare il ruolo del Pd come forza politica centrale per la democrazia e il progresso del Paese ridefinendo la propria agenda identitaria e programmatica, che si è progressivamente dissolta lungo i quindici anni di vita.

La missione deve comprendere i due momenti della diagnosi della crisi e del piano terapeutico, ma prima va sgomberato il campo dalla caricatura, tanto velenosa quanto ridicola, dello scontro di civiltà di un secolo fa tra riformismo e massimalismo rivoluzionario. Oggi nessuno intende abbattere il capitalismo e sovvertire i princìpi fondamentali liberal-democratici dell'Occidente. Il vero discrimine è dato dal fatto che quei princìpi storicamente si sono incarnati, e possono incarnarsi, in una varietà di forme diverse per estensione della sfera del mercato e della sua regolazione, del ruolo dei corpi intermedi e delle organizzazioni civili, dell'intervento pubblico e delle sue articolazioni. Siamo tutti riformisti. Il punto chiave è che cosa riformare, come e per quale scopo.

La diagnosi. La crisi del Pd è sostanzialmente la crisi del modello di riformismo su cui esso è nato e si è formata la dirigenza che lo custodisce come un totem rituale senza mai chiedersi che cosa è andato storto e perché. Era il tempo della seconda Belle époque, quella della fine del XX secolo, con la massima espansione e popolarità del modello di capitalismo globalizzato (essenzialmente di matrice anglosassone) – "forte come il vento, irresistibile come la marea" (Bill Clinton). Ora sappiamo (ma qualcuno nel mondo lo disse anche allora, come Stiglitz in Globalization and its discontents) che la radice fu mal piantata. Per due ragioni.

La prima è che le famiglie di matrice liberal- e social-democratica con cui accasarsi erano tutte in disarmo di idee e proposte politiche, egemonizzate dal programma neoliberale di espansione delle forze di mercato, restrizione degli spazi pubblici, smantellamento degli strumenti di controllo e regolazione. Il riformismo che il Pd abbraccia al momento della sua fondazione è di tipo adattivo (così Michele Salvati sul "Corriere della Sera", il 13 marzo 2019). Ossia – come ha scritto in maniera più sanguigna Wolfgang Munchau, noto editorialista del "Financial Times" – mentre originariamente essere riformisti significava riformare il capitalismo per renderlo socialmente equo, giusto e sostenibile, dopo l'obiettivo era diventato quello di riformare la società in modo da adattarla, in un certo senso subordinarla, al modello di capitalismo della fine del XX secolo.

La seconda ragione è che, proprio mentre il Pd nasceva, la nuova Belle époque stava per finire, in un crescendo di squilibri macroeconomici, instabilità finanziaria, tensioni sociali che sarebbero deflagrati con la crisi mondiale del 2008-09. Il mondo che ne è scaturito nel quindicennio successivo è radicalmente cambiato, rendendo rapidamente obsoleto il pur diligente apprendistato pro-market del riformismo adattivo.

Proprio mentre il Pd nasceva, la nuova Belle époque stava per finire, in un crescendo di squilibri macroeconomici, instabilità finanziaria, tensioni sociali che sarebbero deflagrati con la crisi mondiale del 2008-09

Riproporre pedissequamente la narrazione secondo cui stagnazione economica, malessere sociale e populismo sarebbero mali tutti italiani derivanti dalla mancanza di riforme pro-market è fuorviante e non porta nel futuro. Si è ormai perso il conto delle riforme della scuola, dell’università, delle pensioni, del lavoro, della Pubblica amministrazione che i vari governi di centrosinistra hanno cercato di realizzare. È vero che alcune sono rimaste incompiute, e che gli indicatori internazionali pro-market ci dicono che l'Italia rimane arretrata, ma è anche vero che i loro valori sono migliorati rispetto a trent'anni fa. Eppure i trend di lungo periodo dell’economia italiana non hanno mostrato alcuna inversione di tendenza. Occorrono altre e più approfondite diagnosi, e nuove terapie.

Per cominciare, alziamo lo sguardo oltre confine. L’Italia non ha vissuto, e non vive, su un pianeta a sé. È la maglia nera di un gruppo di (ex) corridori stanchi e smarriti. Due anni fa un articolo pubblicato su una delle prestigiose riviste dell'American Economic Association ("American Economic Journal: Macroeconomics", 2021, n. 1) presentava i principali fattori (dieci!) di perdita di dinamismo delle economie avanzate e un bilancio con molte ombre delle politiche pro-market che hanno dettato legge nei Paesi avanzati.

Deregolare i mercati doveva renderli più efficienti e competitivi e generare maggiori investimenti e crescita. Invece, quello che osserviamo è un aumento della concentrazione del potere di mercato con poche superstar dominanti nei settori strategici, l'aumento della quota del reddito nazionale appropriata dal capitale (soprattutto finanziario) a scapito di quella del lavoro, e ciononostante una stagnazione degli investimenti e della crescita. Rendere più flessibile il mercato del lavoro doveva favorire l'occupazione e la produttività, e invece abbiamo visto aumentare le diseguaglianze di reddito, peggiorare le retribuzioni medio/basse e rallentare la produttività. Si è cercato di innalzare in tutti i modi la formazione del capitale umano per affermarsi nella competizione del mercato, ma la creazione di posti di lavoro apicali si sta assottigliando, con una crescente divergenza fra le ambizioni dei giovani, la bassa qualificazione media richiesta e la cronicizzazione del lavoro povero (ora persino in America mancano soprattutto i camerieri e i facchini di Amazon).

La "prospettiva terribile" paventata da James Meade, e che egli contribuì a scongiurare insieme agli altri ideatori del Welfare State moderno, sembra essersi materializzata sessant'anni dopo. È questo lo stato del mondo economico che bisogna capire, spiegare e riformare perché è proprio da esso che nascono i fenomeni di disarticolazione e polarizzazione sociale e politica che minano il consenso popolare per i sistemi liberal-democratici a favore di forze politiche autoritarie, populiste, sovraniste, le quali non si acquietano certo, semmai si aizzano, sentendosi dire che però moltitudini di diseredati nel mondo stanno un po' meglio.

Questo non vuol dire che le riforme pro-market in Italia non andassero fatte, o non siano più necessarie. Il fatto politico è che la stagione del "liberismo di sinistra" (Il liberismo è di sinistra, A. Alesina, F. Giavazzi, Il Saggiatore, 2007) come missione e identità è finita. Se non altro perché la prospettiva di affidare il destino di sé e dei propri figli all'alea di farcela da soli nell'arena del mercato ha perso, non per astratte ragioni ideologiche, il consenso sociale e politico di cui godeva un paio di generazioni fa.

Il piano terapeutico. Le sfide del nuovo secolo – equità, democrazia economica, giustizia sociale, sostenibilità ambientale – richiedono di passare dal riformismo adattivo al riformismo trasformativo. La sinistra democratica e progressista del mondo occidentale si distingue dai neoliberisti e dai populisti in quanto è consapevole della necessità di ricondurre l'economia entro "il corridoio" dello sviluppo virtuoso, per usare l'immagine creata da Acemoglu e Robinson (Perché le nazioni falliscono, Il Saggiatore, 2021). Un corridoio lungo il quale, e grazie al quale, individui e società non cadano preda da un lato del Leviatano statuale, e dall'altro delle forze hobbesiane del mercato. Pensare che queste siano in grado di guidarci nel corridoio virtuoso sarebbe come pensare che un fiume in piena sia capace di costruirsi gli argini da solo.

In questa prospettiva, oggi l’agenda riformatrice in tutti i Paesi occidentali parte dalla ricostituzione, magari in forme nuove e più efficaci, dei sistemi pubblici di assicurazione, previdenza e redistribuzione fortemente ridimensionati col convinto contributo dei riformisti della Belle époque.

Oggi l’agenda riformatrice in tutti i Paesi occidentali parte dalla ricostituzione, magari in forme nuove e più efficaci, dei sistemi pubblici di assicurazione, previdenza e redistribuzione

Ma questo primo passo non è sufficiente. Il compito della sinistra non è solo quello di allestire l'ospedale da campo del mercato, un compito per altro sempre più oneroso per lo Stato, che alimenta il malcontento sia di chi dà sia di chi riceve nel processo redistributivo. Che si tratti di riaccendere i motori dello sviluppo, impedire condizioni di lavoro inique e degradanti, ridurre le disuguaglianze insostenibili, salvaguardare l'ambiente, il territorio, la salute, occorre agire anche su come si lavora, si produce, si fa impresa, ossia sulla struttura produttiva del Paese. "Good jobs need good firms", sostiene Dani Rodrik. Così, mentre negli Stati Uniti la business community discute di come ripensare le finalità, l'organizzazione e le responsabilità dell'impresa nei confronti della società, in Italia sembra che tutto debba essere riformato – mercato del lavoro, Pubblica amministrazione, burocrazia, sistema formativo – tranne la struttura produttiva stessa, il "modello di capitalismo", si sarebbe detto in altri tempi, passato indenne anche attraverso l'ultima grande riforma di sistema, la legge Draghi del 1998.

L'ossessione per le "rigidità del mercato del lavoro" – necessaria per ottenere l'etichetta di riformista doc – lo ha reso oggetto di diciassette interventi legislativi in poco più di vent'anni. Ma il centro nevralgico di un'economia capitalistica ben funzionante – lo dice il nome – è il mercato dei capitali, non quello del lavoro.

In Italia i processi di riallocazione delle risorse produttive essenziali per i salti qualitativi e quantitativi – quella che Schumpeter chiamava "distruzione creatrice" – sono insufficienti e inefficienti. Nonostante i passi avanti compiuti su pressione della normativa europea e internazionale, il sistema bancario è ancora affetto da relazioni di clientela soprattutto tra banche e imprese locali, insufficiente capacità di analisi del merito di credito industriale e del potenziale di crescita d'imprese nascenti e innovative. Il mercato azionario presenta insufficiente partecipazione, bassa capitalizzazione, scatole cinesi, non contendibilità, scarsità di investitori orientati al rischio di lungo termine.

L'industria (per non parlare di servizi e professioni) continua a soffrire il nanismo e familismo di troppe imprese, o forse presunte tali, bloccate da assi ereditari inamovibili e intangibili, poco efficienti, scarsamente innovative, con condizioni di lavoro e remunerazioni inique. Troppe sopravvivono solo ai margini delle grandi correnti commerciali aperte e competitive, richiedendo dosi crescenti d'incentivi per fare ciò che un imprenditore dovrebbe fare per sua natura e missione (e di cui infatti non c'è chiara evidenza dell'efficacia), ma anche dosi crescenti di lassismo fiscale e regolativo su sistemi di sicurezza sul lavoro, tutela ambientale, tutela del consumatore, relazioni sindacali, criteri di responsabilità sociale ecc. Le eccellenze che ci tengono a galla sono poche e politicamente ininfluenti.

C'è poi un altro moloch su cui intervenire radicalmente: il sistema fiscale. Esso è lo specchio, e nel contempo lo strumento, dell'idea di società e di economia che si vuol realizzare, ed è stupefacente sentir riecheggiare a sinistra lo slogan "le tasse possono solo diminuire" (senza menzionare quali spese devono diminuire, per giunta), mentre è del tutto evidente che il problema del fisco italiano non è il livello medio delle aliquote – una media trilussiana in cui pochi pagano per molti – ma il suo stato disastroso quanto a razionalità, efficienza, equità.

Ristrutturare il sistema economico per tornare a farlo funzionare come dovrebbe è quindi una necessità ineluttabile se si ha a cuore l’avvenire del Paese. Farlo con una visione di società equa, aperta, coesa è un dovere della sinistra democratica e progressista. E per farlo occorrerà non già un esangue moderatismo, ma tutta la visione e forza politica necessarie per rompere il sistema immobile di protezioni costruito dalla destra gattoparda della Seconda repubblica, per portare il Paese a unirsi in un nuovo contratto sociale in cui tutti devono mettersi in gioco per poi condividerne i benefici.