«Quando in una foresta divampa un incendio devastante, alla domanda “come è scoppiato?” si può rispondere in due modi. Uno ha a che vedere con ciò che ha letteralmente innescato l'incendio: una scintilla proveniente da un fulmine, un falò di bivacco accudito male o la tanica piena di benzina di un piromane. Il secondo spiega il motivo per cui si è lasciato che legna secca e altri detriti si accumulassero a lungo nel sottobosco, in quantità sufficiente a permettere a un'unica fiamma di innescare un incendio».

Professore alla Lyndon B. Johnson School of Public Affairs della University of Texas, e prima ancora docente a Harvard e alla Johns Hopkins, Michael Lind è anche un analista di politica ed economia per testate come il «New York Times» e il «Financial Times». Nel 2020 pubblica The New Class War: Saving Democracy from the Managerial Elite, il suo primo libro tradotto in italiano, nel 2021, con il titolo La nuova lotta di classe. Élite dominanti, popolo dominato e il futuro della democrazia da Luiss University Press.

L'incendio in questo libro è una rivoluzione, anzi, una controrivoluzione. Il populismo è esploso contro quello che Lind chiama neoliberismo tecnocratico, frutto della fusione del liberalismo del libero mercato e quello culturale di sinistra. Le prime fiamme compaiono nel 2016, con il referendum sulla Brexit e l'elezione di Donald Trump. Dilagano poi in Francia con la protesta dei Gilet gialli nel 2018, e nello stesso anno con il governo giallo-verde in Italia, ma anche con la crescita in questi anni di partiti populisti nel resto dell'Europa. Oggi alcune di queste fiamme sono sopite, ma l'attualità di questo testo e la sua importanza emergono dall'analisi delle ragioni profonde della rivoluzione, e dalla ricerca di un'alternativa che possa mettere in sicurezza le democrazie da nuovi incendi.

Il testo si articola in nove capitoli, con un dialogo introduttivo intitolato Competenti contro deplorevoli tra Lorenzo Castellani, docente presso la Luiss Guido Carli di Roma, e lo scrittore Raffaele Alberto Ventura. I primi cinque capitoli rappresentano l'analisi politica ed economica del problema attuale e una ricostruzione storica della lotta di classe precedente. Il sesto capitolo è il punto di svolta del libro, in cui Lind espone gli errori interpretativi sui quali le élite si sono adagiate di fronte alla crisi politica di oggi, e li contrappone al pluralismo democratico.

La nuova lotta di classe si manifesta tra la «superclasse» e la classe medio-bassa, in un sistema sociale dove «le lauree sono i nuovi titoli nobiliari e i diplomi i nuovi stemmi di famiglia». La superclasse è caratterizzata dai più alti livelli di istruzione, ma costituisce anche l'élite manageriale e professionale, si riproduce con meccanismi di ereditarietà e include allo stesso tempo «insegnanti di scuola mediocremente retribuiti e imprenditori miliardari». Nonostante si autodichiari cosmopolita e cittadina del mondo, la superclasse è per Lind intimamente legata al territorio nazionale, facendo sì che la lotta sia interna alle nazioni. La classe medio-bassa è invece la classe dei lavoratori che non hanno un’istruzione universitaria, è molto numerosa ma politicamente divisa su svariate questioni, include «facoltosi appaltatori immobiliari, ma anche persone che hanno interrotto gli studi superiori e lavorano come uscieri o scaricatori per società di traslochi».

La superclasse vive di «miti autoreferenziali» e ipocrisie, come la convinzione che essere produttivi significhi avere un alto reddito, o l'idea che nel percorso della carriera professionale sia necessario muoversi geograficamente, per cui lo status sociale superiore è giustificato proprio perché si è diventati cittadini del mondo. Queste modalità di concepire il presente la rendono cieca e sorda, incapace di comprendere le paure che la classe medio-bassa prova nel favorire le politiche ambientali, l'immigrazione o gli scambi commerciali.

La superclasse è cieca e sorda, incapace di comprendere le paure che la classe medio-bassa prova nel favorire le politiche ambientali, l'immigrazione o gli scambi commerciali

Passando in rassegna liberalismo, produzionismo, socialismo, corporatismo e pluralismo, Lind ricostruisce il percorso che le democrazie occidentali hanno affrontato a partire dalla fine del Diciannovesimo secolo agli anni Sessanta del Ventesimo, soffermandosi sugli effetti delle due guerre mondiali e sul breve periodo che ne seguì di pace di classe. Basata su un accordo che Lind definisce trilaterale tra governo, manodopera e imprese, questa pace fu un «armistizio temporaneo» e terminò con «la rivolta delle élite», «la rivoluzione dall'alto». Dal punto di vista economico, la rivoluzione fu caratterizzata dall'arbitraggio fiscale globale, volto ad aumentare i profitti senza aumentare anche la produttività. Dal punto di vista politico, comportò lo scollamento dei partiti politici dai rappresentati e la perdita di autorità delle legislature a favore dei rami giudiziari. Lind parla quindi di un «combustibile» che ha alimentato l'incendio, caratterizzato da voci inascoltate, ignorate, di «grida di rabbia» della gente comune esclusa dagli affari pubblici, di stratificazione di delusioni, di ripetuti fallimenti per resistere alla tecnocrazia.

L'analisi dell'elettorato delle democrazie occidentali porta Lind a sostenere che esistano due spettri politici differenti per la superclasse e per la classe medio-bassa, ciascuno caratterizzato da una destra, un centro e una sinistra. La contrapposizione riguarda il fatto che la superclasse pende a destra per quanto riguarda le politiche economiche e a sinistra per le questioni sociali, come sesso e riproduzione, mentre la classe medio-bassa è nella posizione opposta: pende a sinistra per le questioni economiche e a destra per quelle sociali. Questo spiega il motivo per cui negli ultimi decenni i partiti del centrosinistra sono passati dall'essere partiti vicini alla classe dei lavoratori a partiti di élite.

Lo spettro politico della classe dei lavoratori, ignorato e non rappresentato dalla superclasse, è stato attirato dai «demagoghi populisti» che «hanno difeso in modo opportunistico posizioni legittime», scagliandosi contro la superclasse attraverso le posizioni definite sovraniste, contro il potere politico non eletto, il nazionalismo economico contro l'arbitraggio, e infine sfidando in modo arrogante la correttezza politica che caratterizza la cultura della superclasse. I populisti per l'autore sono essenzialmente reazionari, condannati quindi a un’eterna campagna elettorale, all'incapacità di governare concretamente, al «vuoto di talento e competenza».

Secondo Lind l'élite ha rielaborato questa esplosione populista con la «Paura Rossa», basata sull'idea di una manipolazione delle menti da parte del governo russo, riferendosi alle teorie complottiste dopo la sconfitta di Hillary Clinton, e la «Paura Nera», paura dell'estremismo di destra, ossia la tendenza a identificare tutti i populisti come fascisti ed estremisti pericolosi. È evidente, per l'autore, che entrambe queste teorie falliscono nello spiegare l'origine del populismo, che è in realtà «una sorta di convulsa risposta autoimmune del corpo politico alla cronica malattie degenerativa dell'oligarchia». Ma anche la parte della superclasse che ha tentato di riformarsi per andare incontro alle esigenze dei non rappresentati l'ha fatto attraverso la cooptazione, cioè l'utilizzo di riforme che svuotino l'elettorato populista cercando di mantenere le posizioni di potere. È a questo proposito che Lind scrive che la redistribuzione, al posto della religione, è diventata «l'oppio dei popoli». Inoltre, le élite non si sono fatte carico delle difficoltà della classe medio-bassa, ma le hanno proposto di trasformarsi, «come se essere un comune dipendente salariato fosse vergognoso o retrogrado».

Per riportare l'equilibrio e ristabilire una pace sociale è necessario investire nel pluralismo democratico, integrando la democrazia elettorale con un "federalismo sociale"

Che cosa è possibile sperare? Per riportare l'equilibrio e ristabilire una pace sociale è necessario investire nel pluralismo democratico, integrando la democrazia elettorale con un «federalismo sociale». In questo contesto i legislatori possono delegare parte del loro ruolo a soggetti specifici, enti competenti che rappresentino i diversi gruppi della comunità, come le corporazioni in economia e le circoscrizioni in ambito culturale, aumentando la rappresentanza dei cittadini. Questi «centri alternativi di potere» sono un bilanciamento del potere delle élite, una sostituzione dei vecchi partiti, un «equivalente funzionale». Non rappresentano quindi la scomparsa della leadership e della competenza. In questo modo, «le tensioni tra le classi possono dissolversi in migliaia di contrattazioni su piccola scala, invece di accumularsi fino a provocare un'unica, enorme esplosione».