In seguito alla più recente ondata di democratizzazione seguita al crollo dei regimi comunisti non soltanto nei Paesi dell’Europa centro-orientale, le democrazie che, pure imperfette, sono al tempo stesso elettorali e costituzionali – vale a dire che rispettano i diritti dei loro cittadini – ammontano a poco più di una trentina. A loro si aggiungono all’incirca una quarantina di democrazie elettorali nelle quali i diritti dei cittadini sono poco protetti e ancora meno promossi. La Turchia fa parte di questa seconda categoria, la cui transizione a democrazie costituzionali appare molto complicata. Proprio con riferimento agli avvenimenti in corso in Turchia, occorre ricordare che le democrazie elettorali possono retrocedere allo stadio di non-democrazie, di regimi autoritari più o meno blandi, più o meno repressivi.

Da Norberto Bobbio ho imparato che la legittimità a governare può derivare da due modalità: ex titulo e quoad exercitium. Il titolo può essere l’ereditarietà, la nomina ad opera della persona o dell’organismo ai quali è riconosciuto il diritto di effettuarla, i procedimenti elettorali. La legittimità può anche essere acquisita da chi, pur non avendo all’inizio ottenuto il titolo a governare secondo criteri accettabili, dimostri di volere e di sapere governare in maniera tale, con scrupolo, correttezza, equità, a favore del sistema e di tutti, da guadagnarsela. Nelle democrazie elettorali, il titolo a governare è la vittoria conseguita attraverso procedure eque. In qualche, rarissimo, regime autoritario, il leader sostiene di avere acquisito il titolo a governare poiché agisce a favore del popolo, lo rappresenta e opera per il suo benessere. In generale, è lecito dubitarne fino a convincente prova contraria e purché sia garantita la libertà degli oppositori di sfidare i governanti.

Sulla scia del tentato e mancato golpe in Turchia, dopo una breve esitazione, non necessariamente preoccupante, sia i capi dei governi degli Stati-membri dell’Unione europea sia il presidente degli Stati Uniti hanno condannato il golpe e ribadito la legittimità del governo del partito di Erdogan. Giusto così. La mobilitazione dei muezzin e dei sostenitori del partito di Erdogan ha fatto il resto contro il golpe, ma, come ha scritto giustamente Luigi Ferrarella sul «Corriere della Sera» (18.7.2016, p. 31) quella mobilitazione dice qualcosa sulla popolarità di Erdogan, ma non dice granché sulla democraticità del suo stile di governo. Anzi, le reazioni successive del governo turco e le dichiarazioni di Erdogan sollevano il quesito se la loro legittimità democratica non meriti di essere messa in discussione.

Gli arresti di massa, presumibilmente senza mandato, le modalità di detenzione, trasmesse al mondo attraverso i social nel non tanto sottile intento di insegnare qualcosa a molti, le estromissioni di migliaia di magistrati dai loro tribunali, i licenziamenti di migliaia di dipendenti pubblici, fintantoché non siano confermate dalla magistratura – come, immagino, dovrebbero essere – sono tutti comportamenti deplorevoli, probabilmente persino in violazione della legislazione turca vigente. Pertanto, è del tutto lecito sollevare il quesito se Erdogan e il suo governo non stiano perdendo la legittimità a governare quoad exercitium, ovvero a causa delle modalità con le quali esercitano il potere. L’eventuale re-introduzione della pena di morte, «suggerita» dal presidente al  Parlamento, al quale spetta deliberarla, dovrà essere valutata con riferimento ai criteri per la sua applicazione; ma, comunque, blocca, fintantoché durerà, qualsiasi procedura di adesione all’Unione europea (al momento, non certo una delle preoccupazioni principali di Erdogan).

Senza accondiscendenza e senza ipocrisia, proprio perché gli Stati-membri dell’Unione europea sono consapevoli di quanto importante politicamente, militarmente e socialmente sia la Turchia, il messaggio sul rispetto dei diritti delle persone deve essere inviato a Erdogan senza indugio. I comportamenti delle organizzazioni da lui guidate e controllate rischiano di diventare rapidamente tali da fargli perdere ai nostri occhi qualsiasi legittimità effettiva a governare il suo Paese.