Timore e cautela, astensione o mediazione, autonomia. Queste sono alcune delle parole-chiave che caratterizzano le posizioni degli Stati e delle società in Medioriente e Nord Africa rispetto alla guerra in Ucraina.

Dal lato dei governi e delle coalizioni che li sostengono, apertamente o meno, così come del variegato mondo delle dissidenze, è comune il timore che un conflitto armato in Europa possa propagarsi a causa della vicinanza strategica e della presenza di numerose aree di conflitto in cui i due “campi” sempre più rivali (Russia vs. Usa e Unione europea) si confrontano. Nella Siria dilaniata da undici anni di guerra truppe russe e statunitensi si incrociano nel Nord Est e nel Sud Ovest del Paese; nella Libia della guerra civile, la presenza militare non-ufficiale russa ha sostenuto nel tempo le mire del generale Haftar; in Libano e in Iraq la presenza militare russa, europea e statunitense si dispiega per interposta persona. Tuttavia, è il negoziato sul cosiddetto “nucleare” iraniano a essere il fattore contingente ma anche strategico più importante per molti dirigenti dell’area: l’accordo prevede garanzie sostanziali da parte sia di Washington sia di Mosca e si teme, o si spera, che il conflitto in Ucraina possa far deragliare questo importante momento di cooperazione internazionale.

Altro elemento di timore sono le conseguenze per la sicurezza alimentare e la stabilità finanziaria della regione. Quasi tutti i Paesi importano larga parte del proprio fabbisogno alimentare di base e dei prodotti necessari all’agricoltura industriale e circa la metà proviene da Russia e Ucraina. Basato sui prezzi di mercato mondiali in veloce rialzo già dall’autunno del 2021, il commercio con Mosca risente ora delle sanzioni finanziarie imposte da Ue e Usa che rendono difficili i pagamenti in valuta forte; le forniture ucraine, invece, sono bloccate nei porti assediati dalla Russia e ipotecate dalle distruzioni causate dalla guerra. Per Paesi in cui dal 30 al 40% della popolazione spende quasi tutto il reddito familiare per l’alimentazione di base, i prezzi proibitivi e il blocco delle forniture costituiscono una seria minaccia.

L’adozione di tecniche eco-sostenibili e logiche di mercato concorrenziale sono in atto da tempo ma, ad oggi, non garantiscono livelli sufficienti di produzione; l’intervento statale è limitato dal paradigma neoliberista dei gruppi dirigenti. La stabilità finanziaria della regione dipende ancora dagli shock e contro-shock dei prezzi del petrolio, che sono storicamente i viatici delle crisi finanziarie e debitorie dell’intera regione. La collaborazione con la Russia nell’Opec+ da un lato ha portato al rialzo del prezzo del greggio negli ultimi anni, dall’altro ne ha garantito la gradualità e prevedibilità e dunque ha permesso la programmazione delle spese. Lo shock attuale colpisce i Paesi Mena non-esportatori di energia e la combinazione con il rialzo dei tassi di interesse Usa minaccia la capacità di molti stati di pagare i propri debiti esteri, in veloce aumento dopo il 2011.

Da oltre un decennio, la Russia di Putin è promotrice di un riassetto delle relazioni internazionali in senso multipolare e gerarchico e di modelli sociali conservatori

Ultimo elemento di timore è la perdita o il ridimensionamento della collaborazione con la Russia: tanto a seguito delle sanzioni euro-atlantiche quanto di una eventuale sconfitta in Ucraina. Da oltre un decennio, la Russia di Putin è promotrice di un riassetto delle relazioni internazionali in senso multipolare e gerarchico e, in seconda battuta, di modelli sociali conservatori e sistemi istituzionali centralizzati. Nella regione, i gruppi dirigenti sopravvissuti alle rivolte del 2011 ben accolgono questa politica perché, sebbene nessuno di questi Paesi sia una “grande potenza”, da un lato permette la diversificazione delle relazioni oltre quelle euro-atlantiche e dall’altro legittima regimi politici autoritari.

L’interesse per questa “innovazione conservatrice” della Russia di Putin è trasversale alle alleanze in corso: dall’Asse della resistenza tra Iran, Siria e Hizb’allah libanese ai membri degli Accordi di Abramo, ostili sia all’Iran sia alla politica mediorientale degli Usa di Biden, fino all’asse Turchia-Qatar: tutti gruppi dirigenti in competizione per l’egemonia regionale e, tuttavia, uniti nel rivendicare maggiore autonomia politica da Usa e Ue e dalle rispettive promozioni della democrazia liberale, anche se solo a parole.

Infine, le forze di opposizione. La condanna delle azioni della Russia è pressoché unanime, spesso basata sull’esperienza di quanto fatto da Mosca in Siria dal 2015 in poi, in termini di intensità dei bombardamenti, assedi dei centri urbani ed evacuazione dei civili e delle opposizioni. Questa condanna, tuttavia, non si traduce in allineamento con le posizioni euro-atlantiche perché di queste ne denunciano i “doppi standard”: la mobilitazione per l’Ucraina non ha eguali per la Siria o la Palestina; l’invasione russa viene comparata con quella statunitense dell’Iraq o israeliana della Palestina. Comportamenti che si ritiene diventino “doppi standard” nei limiti in cui contraddicono il sostegno pubblico di Usa e Ue all’universalità della libertà, della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli. Risultato finale, anche in questo caso, è la rivendicazione di autonomia rispetto ai contendenti ritenuti comunque ostili, se non inaffidabili.

Di fronte all’incertezza di tempi ed esiti della guerra, i Paesi di Medioriente e Nord Africa fanno pesare ai partner occidentali l’autonomia costruita in questi ultimi anni rifiutando allineamenti ufficiali o sostanziali

Di fronte all’incertezza dei tempi e degli esiti della guerra in Ucraina, i Paesi di Medioriente e Nord Africa fanno pesare ai partner occidentali l’autonomia costruita in questi ultimi anni rifiutando allineamenti ufficiali o sostanziali: i voti all’Assemblea generale Onu, la reticenza delle monarchie del Golfo, Arabia saudita in primis, nel supplire alle forniture energetiche russe all’Europa, le aperture di Abu Dhabi nei confronti della Damasco alleata di Mosca, la neutralità e le mediazioni di Tel Aviv e Ankara ne sono elementi indicativi.

Al contempo, consapevoli dell’impatto della crisi economica sulle finanze pubbliche e private, sono disposti a negoziare nuovi accordi che, però, siano reciprocamente vantaggiosi e dunque senza quelle condizionalità politiche che dalla fine degli anni Ottanta a oggi hanno contraddistinto molte delle politiche mediterranee dell’Europa.

Negoziare su queste basi non sarebbe un segno di debolezza da parte europea quanto, piuttosto, la dimostrazione della capacità di ri-costruire collaborazioni che siano rispettose di quel pluralismo politico ormai già in atto a livello internazionale e quindi scevre di quelle pretese egemoniche o gerarchiche che dal 2001 hanno già dimostrato i loro effetti devastanti in Medioriente e Nord Africa. Se così fosse, la guerra in Ucraina avrebbe accelerato le trasformazioni già in corso senza, però, che il Cremlino ne possa raccogliere appieno i frutti politici ed economici. Nella sua drammaticità, la storia è anche piena di beffe.