Ci siamo. Dopo quasi un ventennio di politica della paura e dell’odio, ci siamo. L’apartheid entra nell’agenda politica di questo nostro povero Paese. Ci ha pensato Matteo Salvini, deputato e capogruppo della Lega nel Consiglio comunale di Milano. Nei metrò, ha detto, occorre riservare due carrozze alle donne e altre ai “milanesi per bene”. Chi lo sia, milanese e per bene, naturalmente sarà lui a deciderlo. C’è stato chi si è indignato. Qualcuno ha anche distribuito su autobus e metropolitane cartelli con la scritta “Posti riservati ai pirla”, e con la sua foto a mo’ d’esempio. Ma si tratta, nel caso dell’indignazione e nel caso della risposta ironica, di ben magre consolazioni. Quello che voleva ottenere, Salvini l’ha ottenuto.

In primo luogo, ha ottenuto che si parlasse di lui. In secondo luogo ha ottenuto che nell’immaginario dei milanesi, e di tutti gli italiani, entrasse almeno la possibilità di fare come nell’Alabama di più di quarant’anni fa, o come nel Sud Africa di venti anni fa. Per ora, forse, la maggioranza degli elettori non è “pronta” alla “riforma”. Una parte ne è scandalizzata. Un’altra parte – si teme molto più numerosa – la trova inusuale. Ma non facciamoci illusioni. Di altre riforme leghiste e berlusconiane ci si è scandalizzati, o si è pensato che fossero inusuali. E ora sono diventate legge, in un silenzio indecente dell’opinione pubblica.
E poi un terzo risultato Salvini ha già ottenuto. In procinto di andare a votare, siamo stati avvertiti: c’è chi pensa a noi, alla nostra “sicurezza” (non a caso, Silvio Berlusconi si è prontamente accodato: anch’io, ha detto, non voglio un’Italia multietnica). Naturalmente, non si tratta della sicurezza economica: non del nostro lavoro, non della nostra casa, non del futuro dei nostri figli. La sicurezza che oggi va come il pane, la sicurezza che si vende a più non posso sul mercato del consenso politico è quella dell’odio. Un tempo la produceva e la vendeva solo la Lega, il primo movimento razzista di massa italiano. Nell’impresa poi si son messi con sempre maggior entusiasmo gli altri partiti di destra. Quanto a quelli di centro sinistra, troppo spesso si sono accodati, accettando e usando il linguaggio dei loro avversari, e solo cercando di renderlo meno estremo.

Insomma, è fatta. Siamo un Paese che la politica controlla agevolmente attraverso la gestione della paura e dell’odio. Si tratta di un controllo prima di tutto culturale. Le nostre parole – quelle che si scrivono sui giornali, quelle che si dicono nelle televisioni, quelle che si scambiano sugli autobus o in metropolitana – sono il tessuto di un luogo comune vincente, ed egemone. Poiché è con le parole che si pensa, i nostri pensieri sono essi stessi prigionieri di quel luogo comune. Così si spiega che Roberto Maroni possa impunemente rimandare nell’inferno da cui erano fuggiti 227 poveri esseri umani, senza nessun rispetto per la Convenzione di Ginevra. L’Onu ha protestato. Amnesty international ha protestato. Alcuni dei militari che han dovuto riconsegnare le vittime ai loro carnefici lo han definito “l’ordine più infame” che abbiano mai ricevuto. “Non racconterò ai miei figli quello che ho fatto, me ne vergogno”, ha confessato uno di loro. Ma gli italiani sono rimasti sordi e muti, una volta di più.
Anche per questo crimine deliberato contro i diritti umani vale quel che vale per Matteo Salvini, e per la sua apartheid. La destra ne ricaverà voti, e gli altri – di centro o di centro sinistra che pensino di essere – finiranno per rincorrerne il linguaggio e i metodi, perdendo elezioni dopo elezioni. O siamo troppo pessimisti?