FRANCESCA LACQUA Professor Bagnasco, che ruolo hanno oggi le città, e le città medie in particolare, nei processi di sviluppo?

ARNALDO BAGNASCO Come tenere insieme, e insieme rafforzare, crescita economica, coesione sociale e democrazia è il problema delle società contemporanee. Si tratta di un equilibrio difficile da ottenere, ma è proprio in questo equilibrio dinamico che si deve intendere lo sviluppo, in un senso pieno del termine. Il punto che ora ci interessa evidenziare è che su tutti e tre i termini del problema, e per la loro combinazione, le città sono un elemento strutturale decisivo, sottovalutato, per lo sviluppo del nostro Paese.

Sono d’accordo con gli economisti che dicono che il recupero di capacità di crescita dell’economia nazionale ha bisogno dell’autonomo e specifico contributo delle città; quanto alla coesione sociale – ma possiamo anche dire capacità inclusiva, Welfare, integrazione sociale – è un problema che ha certamente bisogno di regolazione e impulso nazionale e regionale, ma che, da ultimo, si manifesta concretamente nelle città, che conoscono e affrontano problemi di situazioni specifiche. L’esercizio della democrazia comincia dalle città. Anche la crisi dei partiti, con le derive populiste e personalistiche che conosciamo, è collegata alla carenza di radicamento locale della politica.

Da sempre gli storici hanno riconosciuto alle città un significato di primo piano per capire la società italiana ma, al contrario di altri Paesi europei, da noi è mancata una vera politica nazionale per le città che riconosca e sostenga il loro ruolo. Nonostante questi limiti, e nonostante le difficoltà, ci sono comunque città che hanno reagito con capacità di azione. Fra queste, vanno comprese diverse città medie, molto presenti in Italia, che in generale sono o possono essere una risorsa del nostro sistema urbano da non sprecare.

FL Il radicamento territoriale delle imprese e uno specifico know how locale hanno delineato storicamente i tratti di una parte consistente del capitalismo italiano e si sono intrecciate soprattutto all’interno dello scenario “intermedio”. Tali modelli di sviluppo economico si stanno trasformando radicalmente: come e quanto questa relazione è cambiata? Come si rapporta con la concentrazione di imprese “globali” in pochi e selezionati centri?

AB La domanda ricorda la vicenda dei distretti industriali, che significa anche storia di centri minori e città medie. Non solo si è trattato effettivamente di un elemento tipico del capitalismo italiano, ma di un fenomeno che ha portato a pensare, più in generale, in termini di sistemi economici locali. È stata una prospettiva che ha insegnato a considerare in modo nuovo l’organizzazione dello sviluppo nello spazio, pensando appunto in termini di sistemi locali, di varia struttura e dimensione, dove osservare la congruenza fra economia e società, e specifiche tensioni, ostacoli ma anche realtà o possibilità di sviluppo.

Oggi assistiamo a una crescita dell’importanza delle città, in particolare delle grandi città, dove si concentra la produzione di servizi avanzati. Città bene attrezzate sono pivot fra attori locali ed economia mondiale. Lo sviluppo, come capacità di far crescere insieme ai diversi livelli territoriali, economia, coesione sociale, qualità della democrazia diventa più complesso e complicato.

Se il nostro punto di vista poi si allontana, si rivela la formazione di vaste conurbazioni, dove si infittiscono attività economiche e residenze. Per fare un esempio: la conurbazione continua di Milano conta oltre 4 milioni di abitanti, e si estende in parte delle province di Varese, Como e Lecco. Non è chiara la natura di queste nuove nebulose territoriali, che al loro interno mostrano distretti industriali, sistemi locali di produzione e servizi di diversa combinazione, città minori e centri di differente dimensione che costituiscono un insieme con caratteri sistemici poco strutturati.

Quanto a grandi imprese, stabilite in città medie o in queste nebulose, se sono o restano qui, è perché in tali contesti locali hanno vantaggi specifici, che possono coltivare e contribuire a innovare con intelligenza, oppure sfruttare fino a che non si siano consumati, e poi andarsene: un rischio più forte se si tratta di imprese a capitale non italiano.

FILIPPO BARBERA La rottura del modello locale dei distretti in cui sistema politico, sociale ed economico riuscivano a produrre insieme politiche di infrastrutturazione territoriale ha portato a una riduzione della capacità di agire, dei territori e del ceto medio che vi abita. I processi di globalizzazione e la nascita delle piattaforme rompe una possibilità di politica territoriale anche per i governi locali perché il capitalismo molecolare, le conurbazioni e le piattaforme sono meno gestibili dal punto di vista di politiche spaziali anche a livello locale, così come le carriere e valori che il “nuovo” capitalismo “piattaformizzato” innerva nei territori sono molto differenti. Che conseguenze ha questo a livello politico elettorale locale, di mobilitazione, di orientamento e di preferenze, di consenso e di ceto medio?

AB La diffusione di economia e società sul territorio è avvenuta in modo disordinato, con scarsa capacità di controllo. In particolare, lo sviluppo dell’urbanizzazione è stato sregolato, e nonostante successive modifiche normative, il governo delle città ha continuato a essere problematico.

Si pensi alla disciplina dell’uso del suolo, prerogativa del governo locale: la tassazione diretta immobiliare per oneri di urbanizzazione è in Italia molto inferiore a quella di altri paesi avanzati. Ciò significa che una quota molto bassa del valore derivato dalla valorizzazione del terreno rimane a disposizione della politica locale. I comuni, in difficoltà finanziarie, si finanziano con crescenti concessioni sull’uso dei suoli contrattate da una condizione di debolezza, spesso con esiti negativi.

Le città hanno perduto margini di autonomia. Come ha scritto un amministrativista, il governo della città da principale regolatore e gestore delle risorse locali tende a trasformarsi in mediatore tra gli interessi locali e quelli degli attori sovralocali, detentori delle risorse da cui dipende lo sviluppo locale. Ma ciò avviene in condizioni di debolezza rispetto a poteri forti esterni, come il grande capitale immobiliare o i gestori delle reti infrastrutturali.

Inoltre, spesso i politici locali devono destreggiarsi fra politiche nazionali di tipo diverso, di competenza di diversi ministeri, che incidono sulle città, ma che non sono pensate nei loro effetti combinati sulle città. Mancanza di una politica per le città significa anche questo.

FL Comunque sia, le città sono società locali più o meno integrate, hanno economie più o meno ricche e dotate di risorse, hanno compiti istituzionali da affrontare: come possono esprimere le loro potenzialità nell’interesse generale?

AB Nella seconda metà del secolo scorso, l’apertura globale dei mercati e l’evoluzione della tecnologia hanno cambiato progressivamente l’organizzazione della società nello spazio. Questo avveniva nel passaggio dall’industrialismo a economia e società post-industriale, con un ritorno delle città sulla scena politica. In particolare, si vedeva allora il dinamismo di molte medie capitali regionali europee, sostenute a un certo punto da una nuova attenzione dell’Unione europea alle città. Anche in Italia si avvertì la scossa, favorita da condizioni specifiche come la legge per l’elezione diretta del sindaco. La capitale regionale che più viveva il dramma della fine dell’industrialismo, Torino, provò a seguire la strada della “pianificazione strategica” che, in forme diverse, altre città europee avevano seguito. Era il modo di far crescere la città come attore politico.

Preparato con un profilo della città in cui si indicavano tendenze e problemi urgenti, elaborato da università e centri di ricerca locali, presentato e discusso in una pubblica assemblea, in circa un anno venne costruito un Piano su gruppi di lavoro a base volontaria, con l’elaborazione di alcune linee strategiche, di obiettivi e azioni specifiche alla quali i partecipanti al gruppo si impegnavano, mentre riunioni generali periodiche garantivano la coerenza complessiva. Il Piano fu sottoscritto dalla maggior parte dei sindaci dell’area metropolitana, e in totale da oltre cento rappresentanti d’istituzioni pubbliche, del mondo imprenditoriale e finanziario, di sindacati, associazioni, università e altre istituzioni culturali che avevano partecipato alla sua elaborazione e riuniti in un’associazione. Il Piano non prevedeva alcuna delega di poteri e tutto il processo avveniva alla presenza dell’opinione pubblica, per così dire.

Questo esempio mostra la logica di una possibile programmazione; nel caso specifico questo primo Piano consentì alcuni buoni anni di risalita dopo la crisi della città-fabbrica, ma in seguito, al cambiare di circostanze esterne, mostrò scarsa capacità di adattamento. Il principale ostacolo va comunque ricercato proprio nella mancanza di una legislazione specifica per le città, che costringeva tali esperimenti al limite del volontarismo, e ostacolava il loro consolidamento.

FB Credo sia utile soffermarsi anche sul ruolo mutevole della città media e della provincia nella produzione culturale, intellettuale e di opinione pubblica. Se pensiamo che una fetta notevole di storia della nostra letteratura e cultura è fatta da autori che erano orgogliosamente appartenenti a città medie e di provincia, oggi sembra quasi che le capacità di rappresentazione e rappresentanza delle società e dei territori composti da città medie siano venute meno. Tutto questo ci sfida a pensare in che modo la logica dei piani strategici potrebbe essere riprodotta anche in quella direzione e con quali strumenti.

AB Non c’è dubbio che la cultura sia una dimensione cruciale per lo sviluppo delle città. Non si tratta solo della cultura materiale del saper fare, delle importanti capacità tecniche di vario genere, ma della diffusione più generale di conoscenza, capacità di valutazione, consapevolezza valoriale.

Qualche anno fa avevo scritto per “Stato e Mercato” un articolo intitolato Città in cerca di università. Il titolo richiamava una tendenza diffusa del momento, che non si poteva ridurre a un effetto di moda. Rispondeva a esigenze avvertite, che meritavano di essere analizzate. Naturalmente è implicito in quanto dico che considero l’università come fattore importante del problema della cultura locale, e che trascuro altri fattori o aspetti importanti. Scrivevo allora che era diffusa fra le élite locali la sensazione che senza qualche tipo di insediamento universitario, mancasse “qualcosa di indispensabile” al nostro tempo e provavo a chiarire i fondamenti del sentimento di tale mancanza.

Va da sé che sullo sfondo ci sono i processi generali di trasformazione che ho già ricordato: apertura dei mercati, globalizzazione, nuove tecnologie, economia della conoscenza. Abbiamo visto lo sforzo delle città per ridiventare e attori economici e politici relativamente unitari sulla scena nazionale e mondiale, e come ottenere capacità strategica definendo con precisione lo stato delle risorse disponibili e i progetti possibili. Ho anche detto che lo sviluppo in senso pieno del termine, deve riguardare l’equilibrio ottenuto contemporaneamente da crescita economica, coesione sociale, qualità democratica, cosa che vale anche per le città. L’importanza dell’università per la città risiede così, oltre che nella capacità analitica, di produzione di dati, di diffusione di tecniche, anche e soprattutto produzione di dati anche e soprattutto nella capacità di partecipare ai processi di mobilitazione culturale e politica in virtù di una certa sua terzietà rispetto agli attori in campo e perché in grado di esercitare una capacità di confronto razionale.

Credo che argomenti del genere siano stati presenti, con più o meno chiarezza, nelle motivazioni di chi promuoveva allora le “università regionali”, che peraltro erano un tema internazionale. Nel frattempo, le cose sono andate avanti, alcune sono riuscite, altre meno. Riprendendo gli argomenti di fondo che emergevano allora a favore delle “università regionali”, si potevano distinguere, sottostanti alle motivazioni degli attori locali, due ambiti di ragioni: la necessità dell’università per l’economia, e per l’innovazione culturale locale in un senso più generale.

Un modo di indicare la particolare cultura di un luogo è dire la sua identità, che esprime condivisione di tradizioni, simboli, valori, storia. Ma perché una cultura identitaria possa vivere le culture ereditate sono continuamente selezionate e rielaborate, per adattarsi al cambiamento: un’operazione difficile, che richiede il confronto con altre culture.

Un aspetto particolare riguarda poi la cultura civica. Più precisamente, la formazione della moralità individuale e sociale. È la possibilità che un’università ha di contribuire alla formazione politica e civica di una classe dirigente, e più in generale dei cittadini di una società locale. Anche su questo aspetto va dunque misurata la qualità offerta dall’università regionale, per valutare se corrisponde o meno alle attese riposte; e chiama anche in causa le responsabilità al riguardo del mondo universitario nel suo insieme.

FL Un’Italia di mezzo che va al voto. Che caratteristiche ha?

AB Inutile ripetere che viviamo un’epoca di grande incertezza, con molti problemi per la convivenza sociale. Si può però aggiungere che la congiuntura attuale soffre le conseguenze della pandemia e di una guerra in Europa. La composizione della società è cambiata, le classi sociali sono meno visibili come tali, più segmentate, si aggiungono e incrociano disparità di genere, di generazione, di origine etnica, di luogo di residenza ‑ e di altro tipo ‑ ognuna in cerca di riconoscimento nella sua specificità, in lotta per affermare diritti propri.

Nell’insieme si riscontra una deriva di disuguaglianza, che asciuga il centro del corpo sociale, spinge la ricchezza verso l’alto, verso un vertice ristretto, e fa scivolare al basso quote di popolazione, il lavoro aumenta ma spesso è precario. Crescono la povertà e il rischio di povertà. Se per “Italia di mezzo” intendiamo il ceto medio, questo è stato strizzato, ma non è per niente scomparso, è più sgranato e vive spesso la “paura di cadere”. Sono le grandi città a registrare con più intensità le tendenze critiche. Molte città medie, in particolare quelle tipiche dello sviluppo a misura dell’Italia, sono state tradizionalmente meno esposte, e probabilmente spesso lo sono ancora. La diversità meridionale si mantiene e rischia di peggiorare, e anche le città medie ne risentono. Fa parte inoltre della congiuntura della tornata elettorale locale, la vicinanza con una successiva tornata nazionale, ed è in corso la campagna per la conquista di frammenti di rappresentanza. In queste condizioni, il richiamo del clima nazionale tende ad assorbire le ragioni di un elettore locale.

Le previsioni sono dunque incerte, anche se sul filo delle argomentazioni svolte finora intravediamo due situazioni polari. A un estremo, si trova una classe politica locale che si presenta ai suoi elettori con promesse di redistribuzioni a imprenditori e cittadini, più convincenti sul breve periodo rispetto a un investimento a redditività differita (un’operazione magari ammantata da qualche indicazione ideologica della politica nazionale). All’altro estremo, è collocata la classe politica di una città che ha sperimentato, dal governo e anche dall’opposizione, qualche forma di pianificazione strategica, che può mostrare risultati convincenti della città come attore politico, capace di una sua strategia, per cui è ragionevole impegnarsi sul più lungo periodo. Le condizioni reali saranno fra i due estremi, e magari si troveranno proposte da lati opposti, in concorrenza.

Non so se questo modello analitico possa prevedere qualcosa, ma suggerirei di usarlo per riflettere a posteriori, sull’esito delle elezioni. Se almeno avremo qualche caso emblematico di successo del secondo tipo, riconoscibile come tale, avremo una conferma che costruire capacità strategica può essere per le città la via per conquistare il loro posto di attori sistemici di sviluppo nazionale.