Qualche anno fa, notando che il cellulare distingueva in automatico le foto dei monumenti da quelle dei paesaggi naturali, non si stupirono in molti. Sarà che noi lo facciamo senza neppure pensarci. Ma quando l’Intelligenza artificiale (AI dal suo acronimo inglese) ha iniziato, a fine novembre, a parlare con noi in modo fluido si è sollevato ovunque un gran clamore. Idee e parole si stringono così forte nei nostri pensieri che non sappiamo o vogliamo separarle. Dalle prime tenere conversazioni che intratteniamo in casa, poi con gli amici o coi maestri, noi tutti siamo costruiti sul linguaggio. La comunicazione verbale, in sintesi, è un tessuto portante dell’umanità e vedere che in esso si è innestata una maglia non-umana ci sorprende, nel bene e nel male.

Battendo Google in velocità, è stata la società OpenAI a mettere per prima, a disposizione del pubblico, un programma (ChatGpt) che interagisce con noi attraverso la tastiera.

Vinte le resistenze alle richieste di email e telefono, vinti i timori di profilazione individuale, uno più uno meno, si entra in un mondo nuovo! Possiamo chiedergli come si tagliano i capelli a un bambino, come si ricicla il cemento, come ci si comporta dopo una brutta lite con un amico. Dalle sue risposte, l’impressione che il programma ci capisca è ineludibile. Possiamo chiedergli di aiutarci a fare la scelta del percorso di studi universitario o di scrivere un messaggio d’amore. Quel che dice risulta, quasi sempre, non solo ragionevole e plausibile ma anche gradevole, competente e persino sinceramente appassionato.

I motori di ricerca danno una lista di documenti ordinati per rilevanza. Poi tocca a noi leggerli, capirli ed estrarre quello che cercavamo. Questo programma invece parla, ha già digerito per noi, a modo suo, una quantità disumana di scritti

Ma è come chiedere a Google? No, per niente! I motori di ricerca danno una lista di documenti ordinati per rilevanza. Poi tocca a noi leggerli, capirli ed estrarre quello che cercavamo. Questo programma invece parla, ha già digerito per noi, a modo suo, una quantità disumana di scritti. In sostanza la macchina ha imparato a completare le frasi e i testi. Con enormi database di documenti a disposizione, grande forza di calcolo e nuovi metodi algoritmici, lo fa così bene che indovina pezzi mancanti anche lunghissimi, incluse le risposte alle domande. Ma la differenza col motore di ricerca si ferma al digerire i testi e fornirci pillole di saggezza? No, perché ogni documento tace se interrogato. ChatGpt no, l’AI risponde! Con lei possiamo anche approfondire se una risposta non ci convince, insistere in modo diretto e senza cortesie. E così ho fatto, scoprendo che è imprecisa, sbaglia e al meglio rimane in superficie.

Racconti di esperienze come la mia hanno cominciato a popolare la Rete dai primi di dicembre. Le assurdità che abbiamo letto sono ormai leggenda. Questa è la mia: “Puoi dirmi se il signore de La Palice fosse in vita un quarto d'ora prima di morire?”. Risposta: “Mi dispiace, non ho abbastanza informazioni per rispondere a questa domanda”. Certo fa ridere, ma non sorprende. Questo tipo di Intelligenza artificiale, quella del deep learning, è diversa da quella che dominava la scena mezzo secolo fa. Quella ragiona nel senso della logica ma, poverina, sa solo quel poco che le abbiamo insegnato. Questa apprende statisticamente dai dati ma ragionare non le è congeniale. In sintesi sa molto ma non ha capito niente e l’azienda proprietaria ce la propone con le dovute avvertenze e cautele.

Il fatto che una macchina simile, già addestrata su un database malizioso o persino criminale, avrà presto un costo inferiore a quello di un appartamento pone un problema urgente

Ma i veri pericoli che questi sistemi informatici presentano vanno molto oltre a quelle excusatio. Queste chat automatiche possono generare disinformazione a velocità ed efficienza devastanti. Il fatto che una macchina simile, già addestrata su un database malizioso o persino criminale, avrà presto un costo inferiore a quello di un appartamento pone un problema urgente. Invece di rincorrere affannosamente queste disfunzioni dovremmo prevenirle. Per farlo serve creare sedi di studio e realizzazione che non siano solo quelli delle grandi aziende del digitale dove si concentra una parte troppo grande delle attività, in particolare quella di raccolta dei dati. Quelle aziende stanno sviluppando in pieno diritto un’AI intorno al loro core-business, che è il mercato. I dati che spremono dai loro ignari utenti sono generati da algoritmi fatti per farci cliccare senza tregua con le distorsioni di disinformazione e polarizzazione che ben conosciamo.

Il core-business dovrebbe invece essere guidato da noi, dal nostro benessere e in ultima istanza dalla nostra crescita culturale. Questo core-business esiste già e si chiama ricerca scientifica, ma abbisogna di strutture nuove, grandi finanziamenti e sostegno del pubblico. L’AI è ancora una giovane tecnologia piena di opportunità e rischi. Dobbiamo prenderla per mano, noi tutti, e accompagnarla fino a che diventi scienza matura. Qualche anno fa, in una commissione ministeriale, proponemmo la costruzione di un Cern per l’Intelligenza artificiale. Ovviamente non se ne fece nulla, ma la speranza è l’ultima a morire. Oggi conviene rilanciare, col dovere dell’ottimismo, l’idea di una vera collaborazione internazionale per AI, come la stazione spaziale, con supercalcolatori e centri di ricerca nei vari Paesi del mondo che lavorano insieme al bene comune.