L’idea di costruire corridoi umanitari per sottrarre i migranti allo sfruttamento dei trafficanti di uomini e della criminalità organizzata è evocata con una certa insistenza in molte analisi sul governo delle migrazioni internazionali. Si tratta di un’idea che, coniugando solidarietà e sicurezza, suscita immediatamente interesse e condivisione, ma che necessita di essere attentamente approfondita se se ne vogliono cogliere tutte le implicazioni. Bisogna, infatti, riuscire a individuare le modalità attraverso cui i corridoi umanitari possono essere realizzati e stabilizzati, sapere identificare con una certa precisione gli aventi diritto a fruire di tali corridoi e, infine, definire in modo non troppo approssimato i costi dell’intera operazione.

Piuttosto che ragionare in astratto su questi difficili problemi, vale la pena partire da alcune interessanti esperienze concrete che meriterebbero di essere maggiormente pubblicizzate. Mi riferisco all’apertura di corridoi umanitari, frutto di un Protocollo d’intesa sottoscritto in Italia il 15 dicembre 2015 tra ministero degli Affari esteri e ministero dell’Interno, da un lato e, dall’altro, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche e Tavola Valdese.

Questo Protocollo d’intesa ha previsto l’arrivo in Italia, tra il 2016 e il 2017, di mille profughi dal Libano (prevalentemente siriani fuggiti dalla guerra), dal Marocco (dove giunge buona parte di chi proviene dai Paesi subsahariani martoriati da guerre civili e violenza diffusa) e dall’Etiopia (eritrei, somali e sudanesi). Si tratta di un progetto-pilota volto a concedere a persone in «condizioni di vulnerabilità» (vittime di persecuzioni, torture e violenze, minori non accompagnati, donne sole con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo.

Le associazioni proponenti, attraverso contatti diretti nei Paesi di transito interessati dal progetto, predispongono una lista di potenziali beneficiari che viene trasmessa alle autorità consolari italiane dei Paesi coinvolti, le quali – dopo i necessari controlli e sulla base del Regolamento del 13 luglio 2009 che istituisce il Codice comunitario dei visti per motivi umanitari – rilasciano i visti. Si tratta di un modello replicabile dagli Stati dell’area Schengen. Una volta arrivati in Italia, solitamente con regolari voli di linea, i profughi vengono accolti dai promotori del progetto e sostenuti fattivamente nel percorso di integrazione socio-culturale nel nostro Paese. L’iniziativa è totalmente finanziata dalle tre comunità religiose coinvolte.

A tutt’oggi l’operazione si è rivelata un successo, ma naturalmente non mancano i problemi. Anzitutto la selezione dei soggetti considerati in «condizioni di vulnerabilità» non è facile, sia per il carattere convenzionale e perciò contestabile di ogni processo definitorio, sia per la necessità, moralmente dilemmatica, di dover scegliere (per ragioni di sostenibilità economica) un numero ridotto di soggetti tra una platea molto ampia di persone con uguali ed elevati livelli di vulnerabilità. La stessa netta distinzione tra migranti per motivi economici e profughi che fuggono di fronte a minacce alla loro vita è tutt’altro che agevole, come ben sanno gli operatori del settore. In secondo luogo, non tutti i Paesi di transito dei migranti sono interessati al progetto o dispongono di rappresentanza diplomatica e consolare dello Stato italiano, il che riduce il grado di estensione dell’operazione. Infine, va considerato il costo elevato dell’intervento.

Certamente se molti Paesi dell’area Schengen si impegnassero nei corridoi umanitari, coinvolgendo sempre più settore pubblico e settore privato, l’operazione diventerebbe più sostenibile anche sotto il profilo finanziario. Potrebbe anche preludere a una revisione del regolamento di Dublino e della legislazione europea. Soprattutto, rappresenterebbe una prospettiva diversa, o perlomeno integrativa, rispetto a quella oggi dominante della militarizzazione delle frontiere (Guardia di frontiera europea, azione navale contro i trafficanti Eunavfor Med – operazione Sophia) e permetterebbe la gestione in tempi brevi della sicurezza dei migranti particolarmente vulnerabili.

Lo stesso Migration compact del 15 aprile 2016, fortemente sostenuto dallo Stato italiano, pur delineando interessanti interventi a favore dello crescita economica dei Paesi terzi, in particolare africani, e strategie di cooperazione internazionale di polizia e magistratura per la sicurezza dei migranti, rimanda ai tempi lunghi dello sviluppo e, purtroppo, ignora lo stesso Protocollo d’intesa per i corridoi umanitari. Anche il recente accordo Italia-Libia del 2 febbraio 2017 non esce da questi limiti. C’è da sperare che il successo dei corridoi umanitari finora realizzati riesca progressivamente a favorire un allargamento delle prospettive su come coniugare, in tempi ragionevolmente brevi, solidarietà e sicurezza per i migranti, sottraendoli allo sfruttamento dei trafficanti di uomini e della criminalità organizzata.