Donald Trump ha un pelo sullo stomaco folto come quello di un mammut. Un mammut che, da quanto si scrive su di lui, ha forse inteso difendersi dalla torreggiante figura del padre, palazzinaro pirata per il quale solo il trionfo su ogni avversario rendeva la vita degna di essere vissuta, divenendo ancor più spietato di lui. Con la conseguenza di un disprezzo radicale e sincero nei confronti di chiunque non lo riconosca superiore o che Donald ritenga in qualche modo inferiore, innanzi tutto chi non ha avuto successo, i losers, i perdenti. Resta allora da capire perché gli evangelicals americani, un polverio di cristiani devoti che comprende almeno il 25% degli americani, siano le sue truppe elettorali d’assalto. Di questi il 76% sono bianchi, l’11% afroamericani e gli altri latinos o asiatici. L’81% degli evangelici bianchi, secondo il reputatissimo Pew research center, vota Trump, così come oltre il 10% dei latinos e un 6-7% degli afroamericani. Un bel gruzzolo elettorale, tanto più che l’influenza evangelicale è forte anche su chi non lo è.

Nel 2007 Kim Clement, il profeta cantante, in un lungo sermone in musica costruito su passi della Bibbia profetizzò con grande successo la futura ascesa di Trump alla presidenza come parte del piano del Signore per salvare l’America. Nel 2018 la Liberty University, vera e propria corazzata evangelical, sponsorizzò un film, The Trump prophecy, per narrare la storia di Mark Taylor, un ex pompiere che nel 2007, guardando The Apprentice, la famosissima trasmissione televisiva che rese Trump una celebrità nazionale, sentì la voce di Dio che gli annunciava che Trump sarebbe diventato presidente e da allora è stato un suo accanito agit prop nel nome di Gesù. Altri esempi non mancano, senza contare filmati evangelicali in cui Trump avanza circonfuso da una luce che forse è il sole dietro di lui o forse è la luce divina che lo accompagna. Si potrebbe dire che si tratta di fenomeni di frangia. Forse, non fosse che sono eventualmente la frangia di una cultura evangelicale vasta, articolata, estremamente moderna nell’uso delle tecnologie, che agisce attraverso social media, network radiofonici e televisivi, università, centri biblici, case editrici e il popolarissimo Christian rock. Una cultura addirittura dominante in molte zone.

Oltreatlantico sono evangelical grandi denominazioni come la Southern Baptist Convention, molte chiese metodiste, le Assemblies of God, decine di denominazioni minori e un polverio di centinaia di megachurch, chiese autonome fondate da predicatori dal grande carisma che al servizio domenicale radunano fino a 40.000 fedeli e allargano la loro azione attraverso radio, televisione e social media. Il termine evangelicale è quindi un termine ombrello che abbraccia quanti, con molte varianti, si riconoscono in due principi fondamentali. Il primo è l’autorità ultima della Bibbia letta dai fedeli senza mediazioni, il che implica un letteralismo che può giungere al fondamentalismo. Il secondo è la conversione personale, diretta a Cristo che si esprime per la maggioranza nell’essere born again, rinati, vale a dire nell’essersi arresi al Salvatore e nel sentire lo Spirito che vivifica e consente di vivere una vita davvero santa e non solo esteriormente tale. Una fede che a inizio Novecento si rattizzò con la nascita del pentecostalism con i suoi rapinosi revival, la cura spirituale e materiale dei fedeli attraverso l’imposizione delle mani da parte del pastore, la glossolalia, le conversioni improvvise durante servizi religiosi sempre gioiosi e tumultuosi a base di canti e balli.

Negli anni Settanta i repubblicani li cooptarono puntando sulla loro profonda avversione per lo stravolgimento dei valori nella società americana che si avviava vero la postmodernità e da allora lì sono rimasti. Una fede politica diventata vera e propria passione con Donald Trump.

Che Trump sia più o meno religioso lo crede solo un terzo degli americani. Cresciuto presbiteriano, però non evangelical, si dice ancora tale, ma schiva le domande sulla sua fede. Afferma che la Bibbia è per lui “Il Libro”, anche se, pressato dai giornalisti, non è in grado di citare, cosa disdicevole nel mondo evangelicale, i passi biblici a cui si rifà nella vita e in politica. Si è fatto, però, più volte vedere in preghiera assieme a leader evangelical che gli impongono le mani e ha creato un evangelical advisory board alla Casa Bianca ponendovi a capo una predicatrice fra le più famose, Paula White, fondatrice e pastora di una megachurch in Florida, che pronunciò la invocation religiosa il giorno della sua inaugurazione a presidente, prima donna a farlo. Vi è, tuttavia, chi afferma che in privato Trump accusa i pastori di sfruttare i fedeli per lucro e ha un atteggiamento cinico nei confronti della religione. Può non esserci contraddizione perché è un personaggio semplice, di un materialismo trash e spietato che una furbizia felina volta a girare tutto a proprio vantaggio porta a diventare contorto come un cespuglio di pruni; ma che si trova a proprio agio nel mondo di riferimenti cristiani proprio della cultura americana.

Sotto il grande ombrello dell’evangelicalesimo troviamo un doppio frutto esotico, carnale, in cui si intrecciano il positive thinking e il prosperity gospel. Il primo venne fondato da Norman Vincent Peale, famoso pastore metodista andato per una strada tutta sua in cui fede e psicologia si mescolano. La sua è una guida motivazionale per la pace interiore e la salvezza in cui chi crede davvero in Cristo segue un processo centrato sulla ripetizione quasi ipnotica di frasi come “io posso”, “io non ho ostacoli”, “io riesco” che danno pace interiore e capacità di agire. Dio vuole il bene dei credenti e il positive thinking è un modo per amarlo. Peale ha lasciato un’impronta ben viva - Paula White è una sua seguace, ad esempio - ed è stato vicinissimo a Trump fino alla morte nel 1993. L’altro frutto esotico della splendida esuberanza religiosa americana, è il prosperity gospel, il Vangelo della ricchezza, divenuto virale, si direbbe oggi, con i televangelisti degli anni Novanta seguiti da milioni di fedeli. È facile deriderlo per il suo assunto che Dio ripaga chi crede in lui con beni terreni e addirittura con la ricchezza, non fosse che ha radici nel pentecostalesimo di fine Ottocento e a lui si rivolgono innanzi tutto i poveri, i marginali e trovano conforto nello healing, la guarigione spirituale che porta a guarigioni materiali e ridà speranza. Immersa nei valori tanto americani dell’ottimismo, della praticità, dell’etica del lavoro, la fede del prosperity gospel è centrata sull’empowerment, l’avere controllo sulla propria vita, un termine a cui il movimento femminista ha dato senso politico, ma che impregna di sé l’idea americana di libertà. Ed eccoci allora a quello offerto dal prosperity gospel che fa leva su numerosi passi biblici per sostenere che povertà e malattia sono maledizioni frutto del peccato ai quali la redenzione pone rimedio donando pace e benessere. Un benessere che per tanti, come risulta da ricerche empiriche, consiste nell’avere una lavatrice, un buon pasto quotidiano, una casa. Il Vangelo della prosperità vuole anche che si doni, perché Dio restituirà sette volte quanto si è donato, e che si doni al pastore. Moltissimi pastori sfoggiano gioielli, abiti firmati, macchine lussuose, grandi case; ma è giusto, perché sono la prova vivente di ciò che Dio dà ai suoi. Poi vi sono stati scandali e cadute e processi a pastori famosi; però questo è il demonio e non inficia la prova cristiana fornita dall'immagine della ricchezza, né la fiducia di ottenere qualcosa attraverso la fede e il lavoro. Siamo nel profondo della cultura americana.

E siamo a Donald Trump. Quando si chiede agli evangelicals come possano affidarsi a un fornicatore, a uno spregiatore di donne, neri e losers, a un gangster del business la risposta non cambia mai. Dio segue vie misteriose e si serve per i suoi fini di agenti imperfetti. Si vede da quanto fa che Trump è giunto per riportare l’America a una vita cristiana, ai valori tradizionali che l’hanno resa grande, guida dei popoli. L’aver trasferito l’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme è addirittura un segno apocalittico perché ricostituire Israele apre la via al ritorno di Cristo e alla fine dei tempi. Trump è pastore del popolo per volere di Dio come si vede dalla sua ricchezza, dalla sua figura imponente, dalla sua determinazione, dalla sua praticità, dalla fede nei valori eterni. E dal suo agire, con la nomina di giudici conservatori alla Corte suprema, l’avversione all’aborto, la costruzione del muro antimigranti, l’anti-islamismo, le politiche economiche che avranno premiato i ricchi, però hanno dato lavoro ai poveri, lavoro duro, malpagato, ma i cristiani sanno lavorare.

Dove questo porta lo si è visto poco tempo fa, il 17 settembre, quando ha annunciato di voler creare una 1776 commission volta a riportare la verità nell’insegnamento della storia americana che si vuole oggi presentare come “una storia fondata sull’oppressione non sulla libertà”. L’attacco è al 1619 project del “New York Times” del 2019 che, partendo dalla data del primo arrivo di schiavi africani nella neonata Virginia, intende mostrare come schiavitù e razzismo siano intrinseci alla storia americana e come questa non sia solo una splendida storia di eroi bianchi della libertà - dai Padri Pellegrini a Washington a Lincoln a Roosevelt -, ma una storia di razze che si intrecciano di cui una è stata dominante. In piena campagna elettorale Trump ha lanciato un gancio alla sua base elettorale, in gran parte bianca e tradizionalista, ravvivandone il nazionalismo e l’esaltazione della whiteness, l’essere bianchi e protagonisti della storia americana. Un appello a tutti i conservatori e, in primis, a quel 81% di evangelicals bianchi e patriottici che vedono in lui il sia pur peccatore - anzi, in quanto peccatore - agente di Dio nella storia americana.