L’Italia non è un Paese per piani di ripresa e resilienza, si potrebbe dire parafrasando malamente i fratelli Coen. Ma è così? È quello che cerco di discutere in un piccolo saggio in uscita per Donzelli.

Quando è divenuto certo che l’Italia avrebbe ottenuto ingentissime risorse a seguito dell’iniziativa europea del Next generation, è apparsa sin da subito chiara la difficoltà a essere, effettivamente, un Paese per piani di ripresa e resilienza. Un Paese che invece sembra incapace di proiettarsi, di sognarsi nel futuro, di lottare per un futuro migliore. Da molti, troppi anni intrappolato nel “presentismo”: in quel regime di storicità individuato dal filosofo francese François Hartog e richiamato nel bel recente volume di Giorgio Caravale sui rapporti fra politica e intellettuali. Un Paese caratterizzato da una discussione politica, e in genere da una discussione pubblica, tutta incentrata su continue ma limitate guerriglie attorno a specifici temi di volta in volta d’attualità, primo fra tutti l’immigrazione, e non da un confronto fra diverse visioni a lungo termine. Un Paese disattento ai grandi nodi che lo legano, primo fra tutti le grandi disuguaglianze, fra classi sociali, di genere, generazionali e territoriali. In cui la lunga austerità ha contribuito a concentrare l’attenzione più sui tagli all’intervento pubblico, più sulle più volte evocate revisioni della spesa che su politiche di riforma, di ammodernamento e di potenziamento strutturale della scuola, della sanità, del Welfare, delle grandi reti infrastrutturali. E in cui le programmazioni settoriali a lungo termine, per le ferrovie come per le reti idriche, per la sanità come per la ricerca, per il trasporto urbano come per la transizione energetica, hanno perso d’importanza e di centralità nell’azione di governo.

E dunque quando si è improvvisamente aperta la partita del Next generation, e all’Italia è stato chiesto di proiettarsi nel futuro, di individuare i suoi obiettivi collettivi e quindi di programmare coerentemente le grandi, nuove risorse disponibili, rispondere è stato difficilissimo. E quindi non si è partiti da una visione del futuro, ma raccogliendo i progetti già disponibili; il processo di redazione è stato così additivo e il Piano si presenta, anche nella sua versione finale, come una somma di progetti.

Il processo di redazione del Pnrr è stato additivo e il Piano si presenta, anche nella sua versione finale, come una somma di progetti

Certo, non va dimenticato che i governi Conte II e poi Draghi erano alle prese con le emergenze sanitarie collegate alle nuove fiammate della pandemia e a quelle connesse al fermo delle attività economiche, alla necessità di destinare ristori alle imprese e ai cittadini. L’emergenza premeva. Ma questo non spiega, da parte di entrambi, la totale disattenzione, che non era difficile rilevare, a un confronto pubblico sull’impostazione generale del Piano e sulle sue specifiche misure; la scarsa attenzione alla sua coerenza di fondo e al moltiplicarsi di interventi che avrebbero reso difficile la sua attuazione. L’attenzione del governo Draghi è stata tutta concentrata sulle “riforme” e molto poco sugli “investimenti”, nella convinzione del Primo ministro e dei suoi più stretti collaboratori che sarebbero state sufficienti le prime per rendere possibile in due anni una radicale trasformazione del Paese e quindi l’attuazione della spesa. Era davvero difficile far strada a qualche critica, a qualche richiesta di discussione, per quanto proveniente da personalità autorevoli, in un panorama segnato da un coro di peana al “governo dei migliori” e alla sua abilità.

Dopo l’estate 2021, poi, il Piano si è inabissato. Con un processo dalla minima visibilità ma del massimo interesse, le decisioni più rilevanti per il futuro del Paese sono state prese da una serie di ministri, prevalentemente tecnici, del governo Draghi, attraverso le modalità disomogenee e in molti casi discutibili di scelta degli specifici progetti da realizzare nelle misure del Pnrr. Sono loro che, ancora una volta in assenza di qualsiasi significativa discussione politica e nell’opinione pubblica, hanno operato scelte cruciali; scarsissimo è stato il coordinamento da parte del premier e scarsissima l’interlocuzione con le forze politiche della vasta maggioranza. E, con queste decisioni, il Piano si è concretizzato. C’è stato dunque un periodo nel quale la mitica “stanza dei bottoni” evocata da Pietro Nenni tanti anni fa è davvero esistita; e i ministri del governo Draghi li hanno premuti praticamente tutti.

La nave così si è avviata fra un coro di urrà, fra ripetuti, unanimi olè ad ognuna delle tantissime scadenze che venivano rispettate, fra garruli evviva all’arrivo dei diversi assegni comunitari, per un bel totale che sinora ammonta a ben 67 miliardi. Il Piano, come provo a documentare nel saggio analizzando diversi ambiti tematici, ha luci e ombre. Ma intanto si è avviato.

Poi sono arrivate le elezioni anticipate, e il successo – grazie al suicidio degli avversari e al disamore degli italiani per le urne – dell’unico partito di opposizione al “governo dei migliori”. Giorgia Meloni e i suoi collaboratori sono quindi entrati nella stanza dei bottoni: ma li hanno trovati tutti premuti. Non potevano non saperlo. Non potevano non sapere che a loro la sorte aveva riservato un compito davvero ingrato: realizzare tutti gli investimenti previsti, in un quadro macroeconomico completamente trasfigurato dagli effetti della guerra in Ucraina, dall’inflazione e dal forte aumento dei prezzi delle opere pubbliche, che rendevano obsolete molte previsioni di costo del Pnrr e che avevano già costretto il governo Draghi a intervenire con nuovi finanziamenti dal fondo per le opere indifferibili.

La premier ha puntato subito all’occupazione del potere: concentrando le deleghe sul Pnrr assieme a quelle sui fondi di coesione in un unico dicastero, e affidandolo al suo fedelissimo ed esperto Raffaele Fitto, già presidente della regione Puglia ed europarlamentare. Fitto ha poi operato una riorganizzazione delle strutture centrali di controllo del Piano, già piuttosto verticalizzate, portando tutto sotto il suo dicastero e mirando a sostituire i tecnici draghiani con personalità di sua fiducia. Mossa ambivalente. Da un lato comprensibile, per l’opportunità di avvicinare tutte le sedi decisionali alla premier e di manovrare congiuntamente insieme al Pnrr i fondi di coesione, che ai tempi del “governo dei migliori” erano stati oggetto di scarsa attenzione politica e posti sotto il controllo della ministra Carfagna. Ma dall’altro assai azzardata: per i rischi connessi al ridisegno in corsa di strutture, come l’Agenzia per la coesione territoriale, già impegnate su più fronti e con la scadenza capestro del 31 dicembre per rendicontare i fondi strutturali; e per la necessità, di fronte a una tale concentrazione di potere e risorse, di muoversi rapidamente grazie a una forte struttura tecnica di alto livello. Rapidità che sinora non si è vista.

La premier ha puntato subito all’occupazione del potere: concentrando le deleghe sul Pnrr assieme a quelle sui fondi di coesione in un unico dicastero, e affidandolo al suo fedelissimo ed esperto Raffaele Fitto

Poi, in marzo, la Corte dei conti ha pubblicato la sua periodica Relazione sul Pnrr. Con tutto il rispetto per i giudici contabili, essa non dice proprio nulla che gli addetti ai lavori non sapessero già. Che la spesa per le opere fosse molto, ma molto, più lenta di quanto il governo Draghi aveva immaginato con il Def 2021 era già chiaro con la Nadef 2022; che ci fossero problemi con specifiche misure era chiaro dalle pregevolissime ripetute analisi della Banca d’Italia e dell’Ufficio parlamentare di bilancio; che trasparenza e aggiornamento sul Piano, specie per quanto riguarda la piattaforma Regis, fossero assai insoddisfacenti lo avevano documentato in molti, a partire da Openpolis. Ma la pubblicazione di quel documento ha aperto un vaso di Pandora. Il Piano draghiano dei sogni è diventato un documento da incubo. Una ridda di dichiarazioni, in un crescendo rossiniano di intensità, sull’impossibilità di realizzarlo, sull’inopportunità di proseguire, sulla necessità di riscriverlo il più possibile; un filo di perle, fra cui la più lucente è stata forse quella del capogruppo leghista alla Camera Molinari, evidentemente dimentico di aver fatto parte anche della maggioranza che aveva approvato il Piano.

In questo frangente il governo Meloni non ha fatto quel che avrebbe dovuto e ha fatto quel che non avrebbe dovuto. Non ha consentito a Paese e Parlamento di sapere come stanno davvero le cose presentando, come suo dovere, la terza Relazione; non ha tenuto i toni bassi intavolando un dialogo tecnico su specifici punti con la Commissione, che è stata costretta, sommessamente, a ricordare di essere lì disponibile. Anche perché se salta il Piano italiano, salta tutto il Recovery e qualsiasi ipotesi futura di indebitamento comune. Fitto ha invece ripetutamente indicato che alcune parti del Piano sono irrealizzabili e che occorre spostare progetti dal Pnrr ai fondi di coesione, senza dire quali, per quante risorse, con quali procedure, con quali garanzie sull’allocazione territoriale e sostituendoli con che cosa. Facendo balenare spettri di forti interessi, di imprese a corporazioni vicine al governo, per ottenere tante nuove erogazioni nelle proprie tasche invece di impegnarsi per complesse infrastrutture pubbliche.

È vero che siamo capaci solo di chiedere tanti soldi e poi non siamo capaci di usarli?

Allora è vero che l’Italia non è un Paese per piani di ripresa e resilienza? Che lo abbiamo scritto in modo assai discutibile, che abbiamo scelto i progetti con procedure contestabili e che poi alle prime difficoltà alziamo le braccia e scateniamo una discussione senza costrutto? Che siamo capaci solo di chiedere tanti soldi e poi non siamo capaci di usarli? Che rinunciamo a far ripartire gli investimenti pubblici (cuore del Next generation) e ci predisponiamo per una pioggia di sussidi?

No. Sarebbe questa davvero la fine; la rassegnazione a restare la triste Italietta del XXI secolo. La sfida del Pnrr vale quella dell’euro; non abbiamo un Ciampi, ma bisognerà farcela lo stesso. Per tornare a essere un Paese serio, è proprio sul Pnrr che, come nell’inferno dantesco, “si parrà la (nostra) nobilitate”. Con tutti i suoi difetti, con tutti gli errori fatti, con alcuni dei forse duecentomila progetti previsti che andranno certamente sostituiti, con qualche misura che non si realizzerà proprio, il Pnrr è la sfida che l’Italia deve raccogliere per tornare a essere un Paese grande e serio. Un viaggio nell’inferno dell’attuazione per tornare a “riveder le stelle” di un capitale pubblico finalmente ammodernato, di transizioni verdi e digitali avviate, di disuguaglianze di genere, generazionali e territoriali forse un po’ ridotte. Il Pnrr non riuscirà a rilanciare l’Italia: ma può rappresentare una tappa fondamentale dell’uscita dal lungo tunnel del presentismo, per tornare a ragionare di futuro.