La rivolta del 1956 in Ungheria e la sua repressione da parte delle truppe sovietiche è stata recentemente oggetto di una nuova riflessione sul grande schermo. Espediente narrativo dell’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, è infatti il racconto delle reazioni di una sezione del Pci del Quarticciolo, nella figura del suo segretario e della moglie, alle proteste in nome della libertà avanzate da un circo ungherese in tournée nella borgata. L’arrivo del circo porta con sé interrogativi e dubbi sull’interpretazione di quanto sta accadendo a Budapest, ma anche sul «socialismo reale», sui suoi valori e sul suo funzionamento, imponendo una presa di posizione. Al di là della trama del film e della rilettura del passato che offre, appare significativo che a distanza di quasi settant’anni possa essere rievocata la rivolta del 1956 in Ungheria, scelta che sottende una sua presenza duratura nella memoria pubblica italiana.

Prima di quei giorni di fine ottobre a Budapest, il XX congresso del Pcus del febbraio ‒ con il rapporto segreto del suo segretario Chruščëv, in cui vennero denunciati gli errori di Stalin ‒ causò un sommovimento generale, sia nei Paesi del blocco socialista sia nelle forze di sinistra occidentali. Anche queste, infatti, furono investite dalla crisi dello stalinismo, che pose all’ordine del giorno l’interrogativo sul rapporto fra democrazia e socialismo. La posizione del Pci, pur rilanciando l’approccio a una «via italiana al socialismo» e ponendo l’accento sugli errori del partito ungherese, di fatto difese l’intervento armato sovietico e giudicò come controrivoluzionari gli eventi in Ungheria. Una posizione che ebbe molteplici conseguenze: scatenò il dissenso di un nutrito gruppo di intellettuali raccolti attorno al cosiddetto Manifesto dei 101, portò a una differenziazione di vedute con la Cgil di Di Vittorio e alla fine del patto d’azione con il Psi di Nenni.

Le conseguenze e il carattere di cesura storica del 1956, da cui il mito dell’Urss uscì profondamente compromesso, furono nettamente diverse da quelle della rivolta del 1953 nella Germania orientale. Eppure anche quell’anno vide una crisi generale nel blocco orientale, a cui fece da detonatore la morte di Stalin, con scioperi in Bulgaria, manifestazioni contadine in Ungheria, proteste in Cecoslovacchia, fino all’evento più rilevante che fu la rivolta nella Germania orientale, da Berlino Est, a Dresda, a Görlitz.

Nel 1953, tuttavia, nel Pci non si aprì alcun dibattito interno su quanto stava avvenendo nella Ddr: a prevalere non fu tanto il silenzio, quanto l’adesione alla versione tedesco-orientale e sovietica. Lo dimostra una vistosa assenza nei documenti d’archivio, in cui non si rintracciano testimonianze di discussioni, né richieste di scambi d’informazione fra i «partiti fratelli» (Pci, Sed o Pcus).

La rivolta di Berlino Est fu presentata come "un tentativo di provocazione in grande stile, organizzato dai gruppi terroristici alle dipendenze del governo di Bonn e dello spionaggio americano", il cui fine venne individuato nell’ostacolare la riunificazione tedesca

Se scorriamo le pagine de «l’Unità» di quei giorni di giugno, notiamo come la notizia principale fosse quella della condanna a morte dei coniugi Rosenberg negli Usa, a cui venne dato ampio spazio. A pagina due dell’edizione del 18 giugno comparve la notizia della rivolta di Berlino Est, presentata come «un tentativo di provocazione in grande stile, organizzato dai gruppi terroristici alle dipendenze del governo di Bonn e dello spionaggio americano», il cui fine venne individuato nell’ostacolare la riunificazione tedesca. Si menzionavano «agenti provocatori nazisti», che avevano causato gli incidenti, dietro ai quali c’era il governo Adenauer. Agli operai e ai berlinesi fu attribuito il ruolo di aver allontanato i teppisti, saputa della provocazione, che dai giornali reazionari occidentali era stata «gonfiata artificiosamente», tanto da farli parlare inopportunamente di rivolta o di insurrezione.

Nell’articolo trovava spazio anche l’attacco al presidente del Consiglio De Gasperi, presentato a fianco di Adenauer contro le prospettive di distensione avanzate dai sovietici. Il riferimento era alla proposta formulata nel 1952 alle potenze occidentali da Stalin, per arrivare a una Germania neutrale, ma riunificata, dopo comuni elezioni. Se la storiografia si è a lungo interrogata sulle reali intenzioni della politica sovietica, la divisione in due Stati della Germania da situazione provvisoria divenne una realtà di fatto per quarant’anni.

L’articolo dello stesso 18 giugno dell’«Avanti!», quotidiano del Partito socialista italiano, riprodusse toni e interpretazioni di quello de «l’Unità», titolando «disordini provocati a Berlino dai nemici dell’unificazione tedesca». Dietro i sommovimenti tornavano in scena gli «agenti provocatori» e l’«ombra del governo Adenauer». I quotidiani del Pci e del Psi si allinearono, di fatto, all’interpretazione ufficiale data dal governo della Ddr. L’organo principale della Sed, il quotidiano «Neues Deutschland», titolò nello stesso giorno: «il fallimento dell’impresa degli agenti stranieri a Berlino», addebitando gli eventi a provocatori fascisti, sostenuti dalle forze reazionarie della Germania occidentale, che volevano minare il percorso verso la riunificazione tedesca. Nei giorni successivi sia «l’Unità» sia l’«Avanti!» parlarono di un ristabilimento dell’ordine, raggiunto già fra il 19 e il 20 giugno, come a chiudere velocemente la vicenda.

La stampa italiana di sinistra offrì dunque una visione unidimensionale degli eventi del 1953, ingabbiata nella propaganda della Guerra fredda. Su «l’Unità» Maurizio Ferrara contestò ai giornali moderati, da «Il Messaggero» al «Corriere della Sera», la solidarietà offerta agli operai tedesco-orientali, ritenendola una pura forma di propaganda, visto che non era stata tributata agli operai italiani uccisi dai carabinieri nelle proteste del 1950 a Modena. Anche osservatori attenti come Sergio Segre, corrispondente de «l’Unità» da Berlino Est, ribadirono la versione della responsabilità americana, dei gruppi fascisti e dei monopoli industriali e bancari, riportando notizie pubblicate su «Neues Deutschland» che attestavano come il complotto di Berlino fosse stato svelato.

La tesi di un nesso fra grandi complessi industriali e bancari, forze reazionarie e fasciste ‒ ancora presenti e attive in Germania occidentale ‒ venne confermata e rafforzata da questa lettura degli eventi. L’interpretazione della Repubblica federale come di un Paese dominato dai monopoli capitalistici, con permanenze di correnti reazionarie, fasciste e militariste, trovò fortuna in Italia fino alla metà degli anni Sessanta, permettendo, soprattutto al Pci, di sostenere la «democratica e progressista» Ddr, attaccando al contempo la Germania occidentale.

Attenendosi a questa versione, non stupisce che mancò nei resoconti della stampa di sinistra italiana un’indagine reale sulle cause delle proteste, e che nessun cenno fu fatto all’innalzamento delle quote di produzione che aveva causato la mobilitazione nelle piazze. Solo fugacemente si ammisero errori del governo della Ddr e del partito, che avevano creato un certo malcontento fra le masse, in cui bisognava distinguere fra «provocatori fascisti» e «lavoratori onesti». Allo stesso modo non fu menzionata la violenza delle truppe sovietiche e delle forze di polizia tedesco-orientali, o i lunghi processi seguiti agli arresti arbitrari.

Non stupisce che mancò nei resoconti della stampa di sinistra italiana un’indagine reale sulle cause delle proteste, e che nessun cenno fu fatto all’innalzamento delle quote di produzione che aveva causato la mobilitazione nelle piazze

Il Pci manifestò tutta la sua fedeltà all’Urss, una lealtà pressoché automatica, come una sorta di riflesso incondizionato, tale da non lasciare tracce di dibattito interno. Mancarono nel 1953 anche prese di posizione da parte degli intellettuali membri o vicini al partito, che non reagirono agli eventi in corso. Che questi non avessero determinato reazioni né fra le file del Pci, né fra gli intellettuali fu testimoniato anche dal fatto che l’anno successivo, nel settembre 1954, Paolo Robotti, cognato di Togliatti e dirigente del Pci, si recasse a Berlino Est per proporre alle autorità della Ddr la creazione in Italia di un centro per lo studio della questione tedesca, che incentivasse le relazioni fra Italia e Germania orientale. Tre anni più tardi nacque a Roma il Centro Thomas Mann, un’istituzione che si occupò delle relazioni culturali fra Italia e Ddr e raccolse numerosi intellettuali.

Una delle principali testimonianze letterarie dei rivolgimenti del 1953, oltre alla poesia Die Lösung di Bertold Brecht, fu il romanzo Der Tag X (Il giorno X) scritto a caldo da Stefan Heym, censurato dalla Ddr e pubblicato nella Germania occidentale nel 1974, con il titolo Fünf Tage im Juni (Cinque giorni in giugno). Tradotto e pubblicato in Italia nel 1981, la prefazione fu firmata significativamente da Lucio Lombardo Radice, dirigente del Pci, da anni al centro di una rete di contatti con gli intellettuali dissidenti dell’Est Europa, fra cui Robert Havemann e Rudolph Bahro della Ddr.

Proprio nella repressione della rivolta del 1953 Lombardo Radice individuò uno dei momenti decisivi, nonché degli errori fatali del comunismo nella Ddr e nel blocco orientale. Una lettura ex post distante dalle reazioni coeve al 1953, che fu scarsamente recepita anche dalla storiografia, che ha teso a costruire una linea di continuità fra il 1956 e il 1968, lasciando gli eventi del 1953 più isolati. In effetti, le posizioni critiche che cominciarono a delinearsi nel 1956, si ampliarono e arrivarono a compimento nel 1968, di fronte alla «primavera di Praga» e alla sua repressione. La partecipazione all’intervento armato delle truppe di Berlino Est produsse un allontanamento dalla Ddr, che investì anche gli intellettuali che erano stati più vicini allo Stato socialista.

Quindici anni dopo il 1953, la natura repressiva del governo tedesco-orientale, come gli eccessi di dogmatismo e rigidità della Sed, non furono più ignorati. Tuttavia sulla rivolta di Berlino Est rimase un sostanziale silenzio da parte italiana e mancarono attente rivalutazioni, anche dopo la conclusione della Guerra fredda.