È senz’altro un caso, ma certo è curioso che, in un breve arco di giorni, siano apparsi sugli schermi italiani due film che hanno a che fare con la storia del Partito comunista italiano, anche se in modo molto diverso. Uno è quello di Nanni Moretti (Il sol dell’avvenire), che naturalmente è ben noto e discusso; l’altro (I pionieri), molto meno visto e conosciuto (speriamo per poco), è un film di un regista esordiente, Luca Scivoletto, prodotto da Fandango e Rai cinema. Si tratta di due lavori che possono essere assunti come espressione di due diversi modi di concepire e filtrare la memoria storica di ciò che è stato il Pci.

Il film di Scivoletto è un “piccolo” film, che si caratterizza per l'originalità della sua prospettiva: un film godibilissimo, recitato da quattro giovanissimi attori molto bravi, ben diretti, con uno sguardo affettuoso e partecipe, mai sopra le righe. È un lavoro che può essere catalogato come un “racconto di formazione”: di quella generazione che oggi si trova intorno ai 40 anni e che visse da adolescente le vicende storiche della fine degli anni Ottanta. È la storia di un ragazzino che, nel 1990, l'anno della “svolta” di Occhetto, vive gli anni della sua maturazione esistenziale, nel contesto di un paese siciliano (il film è girato a Modica) e all'interno di una famiglia (il padre dirigente del Pci), fortemente segnata dalla politica, dal suo linguaggio, dai suoi rituali.

La cultura familiare, il “respirare” politica ogni giorno, incide sul giovane Enrico (questo il suo nome, non casuale), ma egli ne percepisce anche, in modo istintivo, i limiti. E sente anche, rispetto all’ambiente sociale che lo circonda, e ai modelli di consumo che si affermavano in quegli anni, il peso di una condizione di isolamento. Di fronte alla prospettiva poco appetibile di trascorrere l'estate accompagnando il padre nelle riunioni di sezione, Enrico escogita, insieme al suo amico Renato (da poco rimasto orfano, il padre era esponente del Pci e decisamente ostile alla svolta di Occhetto), una liberatoria fuga da casa, ispirandosi al glorioso istituto dei “Pionieri”, l'organizzazione del Pci che, negli anni Cinquanta, intendeva rivaleggiare con lo scoutismo cattolico.

E così si rifugiano in un bosco, non lontano da una base militare americana, (l'allusione è a quella di Comiso), attrezzandosi con zaini, tende e vettovaglie. E a loro si aggrega anche un terzo ragazzo, figlio di un fascista locale, a cui non importava proprio nulla della politica, ma che voleva vivere una sua avventura. Nel bosco, incrociano il campo base di una comitiva di scout americani, ma in particolare una ragazzina, Margherita, anche lei “in fuga” dal contesto familiare, figlia contesa di un'americana che lavora alla base militare e di un soldato italiano che lavora a Catania. Da qui parte la storia, di cui non rivelo la fine.

Da segnalare, in alcuni passaggi cruciali, la comparsa del fantasma di Enrico Berlinguer (interpretato dall’attore Claudio Bigagli) che agisce dapprima come una sorta di super-io rispetto ai tormenti del giovane Enrico, ma che alla fine (non riveliamo come: un’eccellente e poetica soluzione registica) emerge come una figura che sprona il protagonista alla speranza nel futuro. Il protagonista è combattuto tra gli ideali politici che lo hanno formato e la ricerca di una propria strada: ma, tra questi due poli, non c’è contrapposizione. Il clima del racconto non è mai nostalgico, non è segnato dall’amarezza per le sconfitte del passato, e quel ragazzino si ricorderà di quella sua esperienza: la tappa di una formazione umana, appunto, che come tale non viene smarrita o negata, ma conservata.

Il protagonista de I Pionieri è combattuto tra gli ideali politici che lo hanno formato e la ricerca di una propria strada: ma, tra questi due poli, non c’è contrapposizione

Il film è originale perché, credo per la prima volta, il Pci viene raccontato non da coloro che ne hanno vissuto direttamente le vicende (la generazione di coloro che hanno “fatto in tempo” a conoscere bene il Pci e poi ne hanno vissuto la fine); ma dal punto di vista di un quarantenne di oggi che, di quella storia, da giovanissimo, ha potuto vivere solo la fase conclusiva, e ne ha visto i riflessi nella dimensione familiare e culturale.

Venendo ora a Moretti, va detto subito che il suo è un film con molte dimensioni e molte chiavi di lettura. Non è un film solo “politico”; ma a noi qui interessa un aspetto che si può riassumere in una frase: “chi l’ha detto che la storia non si fa con i se?”, si chiede Moretti a un certo punto, interpretando il ruolo di regista di un film sul Pci e la crisi ungherese del 1956. Detto, fatto: il regista cambia il finale del film che stava girando. Non crediamo di “rovinare” l’impatto formidabile di questa sequenza finale sullo spettatore che non abbia ancora visto il film, rivelando il modo con cui Moretti costruisce la sua contro-storia. Il Pci di Togliatti sceglie di condannare l’invasione sovietica, invece di giustificarla (come accadde nella storia reale); e invece di un tragico finale, di cui è protagonista un generoso militante del partito, disilluso e tradito, il regista immagina una trionfale e allegra marcia popolare lungo i Fori imperiali, apoteosi di un partito che “salva” i suoi ideali (e il suo futuro) dall’abominio della complicità con l’Urss.

Ora, ha ragione Moretti: non è vero che la storia non si possa fare (anche, aggiungo io) con i “se”. E si possono anche ricordare alcune pagine da L’uomo senza qualità di Robert Musil:

“Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente che gli stipiti sono duri: questa massima […] è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’, probabilmente potrebbe anche esser diversa”.

Quindi, è legittimo raccontare una storia costruita a partire dal “come se”: ma in che senso? Qui possiamo distinguere tra l’idea di una storia contro-fattuale, come metodologia interpretativa dei processi reali, e la ucronìa (simmetrica all’utopia), come ricostruzione artistica di un passato possibile, che poteva esserci ma non c’è stato, e di un tempo immaginato che avrebbe potuto cambiare il nostro presente, ma non l’ha fatto. Non sempre i confini tra le due prospettive sono facilmente distinguibili: anche le ricostruzioni letterarie possono avere un elevato valore conoscitivo. Si pensi, ad esempio, al mirabile romanzo di Philip Roth, Il complotto contro l’America, ambientato prima dell’ingresso degli Usa nella Seconda guerra mondiale, che ci restituisce con vivezza alcune pulsioni fasciste che albergavano, e agitano tuttora, la società e la politica americane.

E tuttavia, il “finale” che immagina Moretti non appare del tutto convincente perché, in fondo, non è né l’una cosa, né l’altra. Come metodologia critica, l’analisi contro-fattuale ha pur sempre bisogno di collocarsi entro un arco di variabili ampie ma credibili: deve individuare cioè uno spettro di eventi alternativi plausibili, rispetto al contesto dato. Nel nostro caso – a partire dalla scelta effettiva del Pci di allora: non spezzare il “legame di ferro” con l’Urss –, ci si può immaginare credibilmente cosa sarebbe accaduto se, ad esempio, nel Pci fosse prevalsa (o si fosse potuta esprimere più apertamente) la posizione di Giuseppe Di Vittorio, che effettivamente condannò l’invasione sovietica, ma fu poi messo in minoranza (e qui, Moretti commette un errore, anche dal suo punto di vista: non ha senso che, in quel corteo immaginario, ci fosse il cartello con la foto di Trotsky, autoritario e repressivo non meno di Stalin: semmai, si poteva pensare ad altre personalità, ad esempio Rosa Luxemburg o lo stesso Gramsci; e si poteva immaginare Di Vittorio a braccetto con Togliatti, in testa al corteo, scortato da un folto gruppo di orgogliosi e combattivi braccianti pugliesi).

Una compiuta “storia” ricostruita con i “se” (ovvero fatti possibili, se la catena degli eventi si fosse svolta in altro modo) dovrebbe chiedersi, ad esempio, se nel 1956 fosse nell’ordine delle cose una radicale rottura con l’Unione Sovietica: il Pci perse decine di migliaia di iscritti per la sua posizione filo-sovietica: quanti ne avrebbe persi, o forse anche lo stesso Pci sarebbe sopravvissuto come tale, se il partito avesse condannato l’Urss? Chi lo sa? Ed è qui, per così dire, che sta il bello della “storia fatta con i se”: provare a vedere in controluce ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere, ma per capire meglio quanto accaduto realmente (non necessariamente per giustificarlo, post factum, in nome della razionalità del reale).

È qui che sta il bello della “storia fatta con i se”: provare a vedere in controluce ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto essere, ma per capire meglio quanto accaduto realmente

Il punto, naturalmente, non è quello di una critica alla fantasia di Moretti: siamo nel campo della creazione artistica, non della ricerca storica. Il problema è che, alla fine, il tono della memoria storica che in tal modo viene filtrata, il mood dominante, potremmo dire, appare piuttosto sconfortante. E l’umore che prevale, alla fine, non è quello della speranza, ma quello della malinconia. E nemmeno quello della nostalgia: la quale, quando non sia vissuta come un inerte ripiegamento sul passato, può essere invece una memoria viva dei momenti migliori trascorsi e forse anche una spinta a farli rivivere.

Quando lo scarto tra il “realmente avvenuto” e ciò che si pensa era pur sempre possibile, risulta così drammaticamente ampio e incolmabile, la conclusione implicita non può che essere segnata dal senso di una sconfitta storica, irrimediabile e irredimibile: dall’idea che “abbiamo sbagliato tutto”. Siamo stati questo, avremmo potuto essere altro, certo: ma nel frattempo, in questo baratro, non si salva più nulla? Cosa rimane? Solo sogni infranti e illusioni perdute? Davvero il bilancio è così fallimentare, da poter trovare un proprio riscatto solo nell’immaginazione di un passato diverso?

Insomma, alla fin fine, nel film di Moretti ritroviamo uno schema piuttosto ricorrente nella letteratura e nella filmografia sul Pci: una memoria che celebra la dignità e la nobiltà di questo partito, la ricchezza e la generosità dei suoi militanti, la qualità dei suoi dirigenti, ma che, al fondo, però si arrovella nel rimpianto, e non riesce a darsene una ragione storica e politica. Uno schema che, spesso, si riduce alla retorica delle “occasioni perdute”. E, a proposito, appunto, di “storia fatta con i se”: anche quella del Pci nell’Ottantanove poteva essere scritta in modo molto diverso! Ecco, un altro, possibile soggetto per chi volesse farne un film.

Per tornare al film di Luca Scivoletto, la vicenda del Pci, raccontata con gli occhi di un ragazzino che aveva tredici anni nel 1990, appare in una luce diversa e positiva, che riesce a parlare anche a chi appartiene a un’altra generazione: una storia conclusa, certo, ma non perduta; una storia travagliata, ma che ha segnato per tanti un’esperienza umana che non si è smarrita, che ci ha arricchito e formato, e la cui memoria politica può ancora vivere nel nostro presente. Combattendo una damnatio memoriae che appare inaccettabile.