Quanto ha contato il dottor Ugo Zampetti nel settennato di Sergio Mattarella? Quanto Donato Marra accanto a Giorgio Napolitano? E Gaetano Gifuni, nei suoi 14 anni con Scalfaro e poi con Ciampi? E Antonio Maccanico a fianco di Pertini? O, per risalire agli inizi, Ferdinando Carbone con Einaudi, Nicola Picella pure con Einaudi e poi con Saragat e Leone? 

Ho citato, trascurandone alcuni, i grand commis della Repubblica, i segretari generali al vertice della «macchina» interna del Quirinale. Non mai semplici burocrati preposti all’amministrazione interna, come a lungo si è a torto ritenuto (la storiografia dell’Italia repubblicana li ha spesso trascurati); ma invece indispensabili uomini chiave, invisibili ma tuttavia influenti interpreti-registi delle strategie presidenziali. Basterebbero, a documentarlo, i diari di uno dei migliori, Antonio Maccanico: due densi volumi del Mulino che rivelano in modo lampante quale sia stato il ruolo «segreto» di questo intelligente quanto discreto protagonista nel periodo tra il 1978 e il 1985. Esecutore ma al tempo stesso mediatore delle scelte presidenziali; suggeritore e consigliere ascoltato; moderatore, nel caso, o sennò traduttore sapiente delle esternazioni talvolta impetuose e imprevedibili di Pertini; trait d’union tra il presidente e il mondo della politica e delle istituzioni. 

Quello del segretario generale è stato ed è un mestiere peculiare, senza regole precise, affidato alla discrezione di chi lo svolge, al suo stile personale nell’interpretare la funzione

Quello del segretario generale è stato ed è ancora un mestiere peculiare, senza regole precise (scarse le norme, poco influenti i precedenti). È affidato alla discrezione di chi riveste quella responsabilità, al suo stile personale nell’interpretare la funzione. Non è solo il capo dell’amministrazione, una specie di passacarte: è in realtà anche un risolutore di problemi, spesso dotato di intuito politico così da esercitare un’invisibile azione quasi di tutor del presidente.

Carbone (poi presidente della Corte dei conti) fu colui che diede alla macchina del Quirinale la prima legge organica (era il 1948) e che ne costruì l’assetto interno, riordinando una materia – gli uffici – già affrontata ma caoticamente sotto De Nicola (specie da Iginio Coffari, consigliere di Stato ed ex prefetto, cui il primo presidente si rivolse per «mettere ordine» nel palazzo Giustiniani, prima sede della presidenza). Fu Carbone a «inventare», in stretta aderenza con Einaudi, la nuova identità del Quirinale repubblicano, al tempo stesso sobria, lontana dai fasti mondani della Corte sabauda, ma a suo modo solenne, e anche basata su una sua inedita ritualità. Lo testimoniano bene gli archivi: ad esempio il Cerimoniale che Einaudi personalmente ideò in occasione della prima celebrazione da lui promossa della data del 2 giugno, la festa della Repubblica. Fa parte di quella costruzione (oggi parleremmo di brand) l’episodio arcinoto della pera del Presidente, raccontato nel 1970 da Ennio Flaiano, che ne fu testimone e co-protagonista. Arrivò alla mensa presidenziale, presenti Einaudi e la consorte, donna Ida, un massiccio vassoio straripante di frutta. Il presidente, impressionato dalla grandezza inusitata delle pere, chiese nella sorpresa (e un po’ anche nello scandalo malcelato del massiccio capo cameriere), se qualcuno dei commensali volesse per caso condividere con lui una mezza porzione del frutto. Flaiano, giovane giornalista del «Mondo», alzò arditamente la mano: Le pere divise, si intitolava infatti l’articolo-rievocazione scritto nel 1970. Finita l’epoca di Einaudi al Quirinale – commentava argutamente Flaiano – sarebbe però sopraggiunto il tempo delle pere «indivise».

Oscar Moccia, il segretario di Gronchi, ebbe statura minore di Carbone (e di Nicola Picella che intanto ne aveva preso il posto): veniva dalla carriera prefettizia, era – così almeno lo ricorda Matteo Mureddu, un anziano funzionario autore di due libri di memorie sul Quirinale dei re e dei presidenti – fisicamente basso e anche un po’ grasso, impacciato, privo di carisma, poco capace di comunicare col personale. Gronchi, un presidente iperattivo e forse anche troppo invadente (il contrario del self-control einaudiano) finì per confinarlo in un ruolo assolutamente di sfondo. Così forse fece anche Segni (che però durò poco, per via della malattia) con Paolo Strano, un altro prefetto. Più influente, ma con understatement, fu Nicola Picella; scolorito Franco Bezzi, che ne prese il posto nella seconda parte del settennato di Leone. Uomo chiave invece – lo si è accennato – Antonio Maccanico: si veda nei suoi diari la rete sempre attiva delle sue relazioni, spesso a cena in case di amici, con esponenti del mondo politico, compresi i comunisti. Rigorosamente circoscritto nei limiti tradizionali Sergio Berlinguer, un buon diplomatico con il quale Cossiga volle sostituire appunto Maccanico dirottato alla prestigiosa presidenza di Mediobanca.

Poi venne il lungo regno di Gaetano Gifuni (insieme a Maccanico e a Carbone forse da collocarsi nella triade dei più importanti segretari generali del dopoguerra); quindi il binomio Napolitano-Marra (si cambiava l’uomo al vertice, ma non la sua provenienza dall’apparato della Camera); e infine Ugo Zampetti. Al quale Marco Damilano ha di recente dedicato (forse non senza qualche forzatura) un ritratto a tinte forti, suggerendone un ruolo decisivo accanto a Sergio Mattarella. 

Ma da dove venivano e vengono questi grand commis della Repubblica? 

Di solito dalle alte sfere della burocrazia parlamentare, molti già segretari generali della Camera o del Senato. Ciò li distingue nettamente da un’altra importante élite repubblicana, quella dei capi di gabinetto dei ministeri o dei segretari generali della Presidenza del consiglio, i quali sono tratti in genere dalle grandi pépinières del Consiglio di Stato, dell’Avvocatura dello Stato o (meno) della Corte dei conti. 

E come si compongono gli staff di diretta collaborazione? 

Anche qui emergono figure di specialisti in diritto: uno per tutti, che attraversò vari settennati, fu Salvatore Sechi, consigliere per gli affari giuridici, giunto sul Colle al seguito di Cossiga. Sardo della cosiddetta «Brigata Sassari» insediata al Quirinale dal «picconatore», Sechi restò però poi anche al fianco di Scalfaro, di Ciampi e di Napolitano, per un periodo che si estese dal 1985 al 2015. Fu una importantissima eminenza grigia della Repubblica. Ma ci si imbatte poi anche in non giuristi: specialisti della comunicazione (figure via via sempre più professionali, sino a quella, molto presente, di Giovanni Grasso accanto a Mattarella), addetti militari, economisti, diplomatici, specialisti dei beni culturali e talvolta in non meglio definiti «consiglieri politici». 

Tuttavia questi staff sono provvisori. Chi invece è inamovibile è la burocrazia interna, di antico insediamento e forse anche un po’, stando alla frequenza di certi cognomi, «ereditaria» (nel 1946 era stata in parte mutuata dal vecchio personale del re). Il peso di questo corpo «stabile» è indefinito: certo, dai tempi spartani delle pere di Einaudi, è enormemente cresciuto di numero.

Che tipo di “macchina” supporterà il tredicesimo presidente? Ancora composta dalle élite tipo prima Repubblica oppure da esponenti di differente età, formazione, provenienza, cultura?

E oggi? Che tipo di «macchina» supporterà il tredicesimo presidente prossimo venturo? Ancora composta dalle élite tipo prima Repubblica oppure – come sta accadendo ai vertici istituzionali di tutta Europa – da esponenti di differente età, formazione, provenienza, cultura? 

Rispondere non è facile. Molto dipenderà dalla persona che verrà eletta. Certo le grandi istituzioni, se vogliono durare (cioè conservare la loro legittimazione) devono saper cambiare: ma nella continuità. Occorre un mix di tradizione e di innovazione. E uno stile del presidente e del suo staff capace di «parlare» agli italiani d’oggi. 

Non sarà facile. Conforta un dato: sinora (pur con alti e bassi) gli inquilini del Quirinale sono risultati miracolosamente migliori delle classi di governo che li hanno espressi. Insomma, sul tetto di quel Palazzo, c’è stato, benefico, uno stellone d’Italia. Speriamo che, nonostante tutto, quello stellone brilli ancora.