Nel suo ultimo libro, Humane, How the United States Abandoned Peace and Reinvented War (Farrar, Straus & Giroux, 2021), Samuel  Moyn fornisce una nuova lettura circa le modalità di guerra americane che rischiano di essere «umanizzate» grazie alla tecnologia dei droni e agli attacchi di estrema precisione che questi dovrebbero garantire. Un’interpretazione di cui la storiografia dovrà tener conto. Il libro si ispira in parte al discorso dell’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che nel 2009 ricevette il premio Nobel per la pace per i suoi «sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli»: secondo l’autore, quel momento e quel discorso sono stati illuminanti per ripensare alle dinamiche delle guerre americane. Obama aveva promesso di combattere la guerra con umanità. L’aspetto umano delle guerre viene esplorato anche attraverso l’analogia con Tolstoj, nel suo capolavoro Guerra e Pace.

ALLEGRA SALVADORI Nel suo ultimo libro, Lei crea un nuovo quadro teorico che permetterà a esperti, politici e storici di analizzare la politica estera americana da una nuova prospettiva, quella delle guerre umane (e più lunghe). Pensa che il suo libro e la sua teoria verranno utilizzati come quadro teorico, come strumento analitico?

SAMUEL MOYN La sua è una domanda molto generosa, grazie. Credo che il tentativo sia stato quello di fornire uno strumento, non una cassetta degli attrezzi. Ritengo che il libro sia limitato come strumento, perché si concentra su un unico fenomeno: la guerra. Dobbiamo decidere se il fenomeno si stia verificando in un dato luogo e in un dato momento, e quanto sia grande rispetto ad altri fenomeni; pertanto, penso piuttosto che il libro si colleghi a un tentativo più ampio da parte del popolo americano e non americano di allontanarsi da una sorta di quadro militarista per pensare invece a come la libertà e l’uguaglianza potrebbero diffondersi nel mondo.

Uno dei punti principali del libro si basa sulla convinzione che possiamo imparare molto dai nostri antenati, sia nel riflettere se la guerra contenga il rischio di essere resa umana, elemento che ho cercato di identificare nel corso del mio lavoro, sia nel pensare a quale ruolo i Paesi dovrebbero svolgere nel mondo rispetto alle guerre. Preferirei quindi dire che il libro è un tentativo di contribuire a forgiare un nuovo quadro di riferimento e a riabilitare, in parte, aspetti di quadri di riferimento che sono andati perduti più o meno dal secondo dopoguerra circa.

AS Qual è stato l’aspetto più difficile che ha dovuto affrontare?

SM Mi sono trovato di fronte un problema formale e un problema sostanziale. È stata la prima volta che ho cercato di scrivere un libro che raccontasse storie e si concentrasse a lungo sulle persone. Forse ho esagerato, ma l’ho fatto solo perché prima avevo scritto libri più analitici e ora ho deciso di provare a scrivere per un pubblico diverso. Mi è stato detto che questo nuovo tentativo richiedeva narrazione e persone. Quindi, in alcuni punti mi sono davvero sforzato di convertire il mio stile a questo requisito formale. Anche perché il concentrarsi sugli individui ha un costo: si carica su di essi un significato che si sarebbe potuto attribuire meglio alle strutture e a gruppi di individui.

Venendo alla sostanza, direi che l’ultimo capitolo è stato particolarmente difficile da stendere, perché volevo essere corretto nei confronti dell’ex presidente Obama. Ogni volta che lo osservavo, lo trovavo sempre più complesso. A volte diceva quello che avrei voluto che dicesse, anche se faceva quello che non volevo che facesse. Ho lavorato molto su quel capitolo, in un certo senso per renderlo il mio portavoce. Obama era il miglior critico di sé stesso. È stato difficile riconoscere quanto fosse convinto di sostenere entrambi i lati di ogni questione e catturare questo paradosso.

AS Ha incluso Suttner e Tolstoj per creare questa narrazione?

SM Suttner sicuramente perché volevo, ovviamente, rianimare il movimento per la pace e soprattutto cogliere il ruolo dell’internazionalismo femminista nella sua forma precedente. Invece ho scelto Tolstoj per un’altra ragione, perché mi ha dato la struttura morale del libro: era presente alla creazione dell’idea di guerra umana e la criticava in modi che sono applicabili a Obama. In un certo senso avrei potuto includerlo come protagonista. In realtà, avrebbero potuto esserci solo Tolstoj e Obama senza che includessi nessun altro. In effetti, credo di aver scelto Tolstoj ancor prima di sapere che avrei scritto in una forma che richiedeva narrazione e persone.

AS Vede un cambiamento nel futuro prossimo, da qui a un decennio o due per intenderci, nella guerra perpetua e umana di cui parla nel suo libro?

SM Odio essere pessimista, ma non vedo cambiamenti nel futuro in questo senso. Se penso al mio Paese, l’America sta vivendo un certo declino, seppur non precipitoso, e penso che sia anche a causa di interventi di forte impronta, molto caratteristici della prima guerra al terrorismo in Afghanistan e in Iraq, simboleggiati dalla recente scelta di Biden di ritirare le truppe. La seconda forma di guerra al terrorismo, su cui mi concentro in questo libro, più umana e leggera, cioè senza impronte, è quella che Biden ha promesso di continuare. Mi sembra molto radicata ed è difficile immaginare delle condizioni politiche per cui questa condizione possa cambiare.

Riflettendo invece sull’Europa, dopo le rivelazioni di Snowden [sui diversi programmi top-secret di sorveglianza di massa dei governi statunitense e britannico, N.d.R.] molti europei si sono indignati. Eppure, dopo l’attentato al Bataclan [a Parigi, nel novembre 2015, N.d.R.] la maggior parte dei governi europei ha adottato la sorveglianza di massa e la Corte europea dei diritti dell’uomo l’ha approvata. Questo non significa che un possibile cambiamento non debba essere messo in discussione, anzi, era il mio obiettivo principale nel libro Humane. Ma credo che dovrebbe esserci una diversa configurazione politica affinché possa avvenire un cambiamento nelle modalità di guerra. Potrebbe accadere, ma non è probabile.

AS Lei ha affermato di non aver trovato nessuna buona ragione che possa giustificare l’interventismo statunitense degli ultimi decenni. Guardiamo all’Asia, in particolare a Taiwan: gli Stati Uniti interagiscono con Taiwan da molto tempo, basti pensare al Taiwan relations act del 1979. Lo considera una buona causa per l’interventismo americano oppure come qualcosa in cui gli Stati Uniti non dovrebbero immischiarsi?

SM Penso che di norma nella società globale il divieto di conquista sia una buona cosa. Non c’è motivo di consentire umilmente alla Cina di annettere Taiwan. Non sono sicuro che sia un problema di sicurezza americana, credo piuttosto che si tratti di un problema di pace mondiale. Parte del mio punto di vista nel quarto capitolo esprime proprio questa domanda: come è successo che invece della pace mondiale abbiamo ottenuto l’egemonia americana? Che fine hanno fatto le Nazioni unite e il loro ruolo nel bollare, etichettare gli aggressori nel sistema internazionale e nel capire come raggiungere la pace a livello multilaterale? Una cosa certa è che l’America, e così la Cina, possono porre il veto su qualsiasi cosa. Le questioni del Mar cinese meridionale e di Taiwan dovrebbero essere inserite in un’agenda più ampia, non per concedere agli Stati Uniti di militarizzare l’area, o alla Cina che lo sta già facendo, ma per cercare un modo alternativo di sostenere la causa della pace: la pace agli europei occidentali non è stata forse garantita al prezzo di molte guerre globali sotto l’egida americana? Non voglio tornare indietro!

Che fine hanno fatto le Nazioni unite e il loro ruolo nel bollare, etichettare gli aggressori nel sistema internazionale e nel capire come raggiungere la pace a livello multilaterale? Una cosa certa è che l’America, e così la Cina, possono porre il veto su qualsiasi cosa

AS Il libro espone un sentimento di anti-interventismo americano, una posizione che va contro controcorrente. Come mai?

SM Non voglio che Humane sia inteso come un libro antiamericano perché in realtà in parte trasuda elementi delle tradizioni americane. Effettivamente, però, molte persone si sono indignate dal sottotitolo: per loro l’America non poteva abbandonare la pace perché non l’aveva mai adottata. Io, invece, volevo mostrare loro che ci sono tradizioni di pace in America. Persino gli europei hanno celebrato gli americani per aver portato la possibilità di pace, almeno in teoria. La mia preoccupazione più generale non è verso l’America ma verso il potere. Il mio Paese è diventato egemonico, ma non c’è niente dell’America che renda malvagio il potere: il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente. In questo libro volevo mostrare che anche quando pensiamo che stiamo agendo nel bene facendo uso del potere, ad esempio quando lo «umanizziamo», comunque sia questo si radicherà nel dominio che esercitiamo. La mia preoccupazione è morale e riguarda la gerarchia del potere, presente negli Stati Uniti, così come nei Paesi Bassi, e persino nei Paesi del Sud globale, perché anch’essi hanno le proprie gerarchie di potere... Ecco, il mio libro è controcorrente in questo senso.

AS Ci sono dei meriti nell’impegnarsi in conflitti «umani»?

SM Voglio precisare innanzitutto che non sono critico nell’umanizzare la guerra, nel renderla più umana. Penso che sia una cosa buona ma che allo stesso tempo questa tattica contenga dei rischi. La domanda è se questi rischi si corrano e quanto siano significativi. Che una guerra sia dovuta o inevitabile, io sono per renderla umana. Invece la maggior parte delle guerre che il mio Paese ha intrapreso durante la mia vita non sono state né «buone» né inevitabili. È in quei casi che dobbiamo chiederci se la «buona umanizzazione» della guerra abbia un costo e quale sia, e poi guardare ai nostri leader, come Obama, che ci hanno assicurato che l’umanizzazione della guerra dovrebbe aiutare a fare una guerra legittima: chiediamoci se è vero. Ci sono buone cause che renderebbero giusta la guerra? Penso di sì, ma ultimamente non ne ho viste.

Guardiamo ai nostri leader, come Obama, che ci hanno assicurato che l’umanizzazione della guerra dovrebbe aiutare a fare una guerra legittima: chiediamoci se è vero. Ci sono buone cause che renderebbero giusta la guerra?

Parte dell’ambizione del libro è mostrare che chi ha voluto impedire l’inizio della guerra ha capito che nell’equazione morale non ci sono solo gli innocenti: i soldati muoiono, gli Stati pagano le armi, ci sono enormi danni legali... Ecco perché volevo davvero far rivivere la vecchia saggezza secondo cui se limiti la guerra stai facendo qualcosa di molto più importante di quello che fai quando limiti solo i crimini di guerra. Spero davvero che il messaggio venga trasmesso perché non è ciò a cui molte persone hanno creduto nella mia esperienza di vita.

AS Che cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?

SM La decisione di scrivere Humane è stata dettata da molti fattori. Uno di questi è che avevo pensato molto all’argomento nel corso degli anni. Non era esattamente il mio campo di studi [i diritti umani, N.d.R.], ma era molto vicino, e quando ho deciso di ritirarmi dallo scrivere sui diritti umani, il tema di Humane mi è sembrato un buon trampolino di lancio, un argomento davvero importante di cui non si era mai scritto in questo modo. Mi ha offerto una nuova arena adatta a sperimentare. Inoltre, ho avuto la sfida formale, che non avevo mai avuto prima, di scrivere un genere diverso.

Ma soprattutto credo che ad avermi spinto a scrivere questo libro sia stato l’aver frequentato la facoltà di Giurisprudenza alla fine degli anni Novanta, l’aver frequentato il corso sulle leggi della guerra, e la capacità della mia università di averle presentate come una delle poche cose buone in un mondo violento. Anche l'aver vissuto l’11 settembre come cittadino e come essere umano, è un elemento rilevante. Infine, devo aggiungere un altro fattore chiave: dopo il 2009, l’ingresso di Obama alla presidenza degli Stati Uniti e la rivelazione al pubblico del programma dei droni.

Humane è la mia risposta tardiva per cercare di fare i conti con la storia della mia vita e dell’interventismo nel mondo del mio Paese. Sullo sfondo, quindi, ci sono sia una motivazione scientifica sia una motivazione personale e politica.

[L’intervista qui pubblicata deve molto a Daniël Willems e Gabriel Shalabi, che mi hanno affiancata in questo lavoro.]