Una giovane donna manifesta per le strade contro uno Stato che la reprime. Questa è l’immagine simbolo delle proteste e delle violenze che nell’autunno-inverno 2022-23 hanno attraversato l’Iran in seguito all’uccisione da parte della polizia di Mahsa Amini, una giovane curda arrestata perché non indossava un velo conforme alle attese della ronda che l’aveva fermata.

Sarebbe riduttivo attribuire le recenti proteste in Iran solo alla questione del velo. Non vanno trascurate né la difficile situazione economica in cui versa il Paese soggetto a dure sanzioni internazionali, né l’incapacità dello Stato di soddisfare una classe media allo stremo, in un paesaggio internazionale instabile. Né il velo va considerato come un simbolo univoco in ambito musulmano. Al contrario, mentre continua a essere un capo d’abbigliamento legato alla moda e uno strumento di devozione, da almeno cento anni è anche usato per le più svariate e spesso opposte rivendicazioni politiche. Questa volta, sostengono molti analisti e media, nell’Iran contemporaneo si contrappongono libertà individuale e dominio statale. Il desiderio delle donne di autodeterminarsi si scontrerebbe con la legge che le reprime.

Questa visione, tuttavia, sorvola troppi aspetti della situazione, ad esempio il ruolo della famiglia nella vita delle giovani donne iraniane. Difatti le relazioni di parentela sono fondamentali in Iran e intersecano pubblico e privato. Le reti famigliari si intrecciano con quelle politiche e sono cruciali nella distribuzione delle risorse e quindi nella gestione del potere. Se si riflette sulla situazione in Iran attraverso la prospettiva della parentela, si può capire come la violenza delle proteste sia indice tanto di una netta distinzione tra un noi e un loro contrapposti quanto di un profondo legame che avvinghia le parti in lotta. La parentela crea alleanze ma genera conflitto. Da questo punto di vista, desiderio e legge non sono contrapposti ma inseparabili.

Le famiglie delle vittime della repressione statale sono una presenza costante nei siti di notizie dell’opposizione iraniana. Le famiglie contestano le versioni ufficiali di ciò che è successo ai loro cari e denunciano le torture, le uccisioni e il disprezzo con cui le autorità trattano i cadaveri delle vittime, nonché le difficoltà per riavere i loro corpi. Mentre le autorità vorrebbero seppellirli quasi senza riti, le famiglie pubblicizzano i funerali delle vittime che diventano, come nel caso stesso di Mahsa Amini, occasioni per ulteriori proteste, che vengono documentate sui social media creando solidarietà, almeno fuori dall’Iran.

L’opposizione delle famiglie allo Stato ha una lunga storia in Iran, che si è approfondita dopo la rivoluzione del 1979. Denunciando le torture contro gli oppositori della Repubblica islamica, famiglie coinvolte nella violenza politica hanno tenuta viva la memoria di famigliari che lo Stato voleva cancellare, costituendo attraverso questa opposizione legami di parentela intergenerazionali ancor più saldi.

D’altro canto la famiglia è stata sempre oggetto di grande attenzione da parte del moderno Stato-nazione iraniano, fin dall’epoca della sua formazione nel 1921 e il diffondersi di un modello etero-normativo di relazioni tra i sessi. Sulla famiglia si sono esercitate molte delle politiche dello Stato-nazione soprattutto nei campi della salute, dell’educazione e del diritto. Più precisamente, in Iran Stato e famiglia moderna si sono costituiti a vicenda: ciò che significa essere una buona madre, un buon padre, una buona figlia o moglie è strettamente connesso alle aspettative iscritte nelle norme statali.

Dal 1979, lo Stato rivoluzionario ha investito ancora di più nella famiglia, rimodellando le iniziative della monarchia Pahlavi ed espandendo il proprio raggio di azione. Il vocabolario delle relazioni famigliari ha offerto alla Repubblica islamica un modello alternativo sia al secolarismo occidentale sia al socialismo sovietico o cinese da cui il nuovo Stato voleva distinguersi. Né cittadini né compagni, gli abitanti del Paese erano soprattutto negli anni Ottanta interpellati come sorelle e fratelli. Per decenni molte famiglie in Iran si sono identificate con lo Stato che distribuiva loro risorse e simboli.

L’interconnessione tra Stato e famiglia trova il suo referente ultimo nell’Islam sciita, professato dalla grande maggioranza degli iraniani, che attribuisce rilevanza spirituale e politica alla famiglia del Profeta e dei suoi discendenti. Questi riferimenti non sono privi di ambivalenza poiché le narrazioni sciite, ad esempio sulla battaglia di Kerbela e il martirio del nipote del Profeta e della sua famiglia per mano dell’esercito del califfo Omayyade nel 680 Ce, spesso sottolineano l’antagonismo tra potere costituito e affetti familiari, dando tra l’altro uno ruolo prominente ad alcune donne della famiglia come Zeinab che, sopravvissuta alla tragedia, denuncia senza timore i soprusi e si fa carico di radunare parenti e fedeli rimasti.

Al tempo stesso dopo il 1979 la traduzione delle norme della sharia in leggi statali ha convertito queste norme da modelli di comportamento, valutati in rifermento al contesto, in rigide sanzioni da applicare sotto sorveglianza, trasformando l’etica islamica della famiglia in un apparato poliziesco, la cui legittimità religiosa è comunque spesso materia di dibattito. Se non bastasse, le tradizioni sciite si sono inevitabilmente combinate con nozioni e immagini occidentali della famiglia, tanto che oggigiorno la famiglia modello nell’Iran contemporaneo – nonostante gli sforzi dello Stato – appare più che altro una variante della famiglia nucleare di classe media diffusa dalla pubblicità ovunque nel mondo.

L’opposizione tra lo Stato e la famiglia da un lato e la loro simbiosi dall’altro complicano l’immagine della donna che protesta da sola. Che sia con lo Stato o contro lo Stato, la famiglia è intrinsecamente connessa alla politica. L’opposizione tra noi e loro è vissuta attraverso la parentela. L’affiliazione politica può anche essere una scelta individuale e autonoma, ma trova il suo senso nella rete delle relazioni famigliari che determinano l’appartenenza e tracciano linee di separazione tra chi è con noi e chi è contro di noi.

L’opposizione tra lo Stato e la famiglia da un lato e la loro simbiosi dall’altro complicano l’immagine della donna che protesta da sola

Questa separazione tra noi e loro, tuttavia, non rende conto di come la parentela sia il teatro delle più affettuose intimità come dei conflitti più drammatici. Durante i miei soggiorni in Iran ho ascoltato spesso racconti su famigliari che avevano denunciato altri famigliari, o di famiglie divise dalla politica – un fratello rifugiato all’estero, l’altro funzionario statale di alto livello. Negli ultimi mesi contrasti profondi all’interno di alcune famiglie delle élite governative sono finite sulle prime pagine dei giornali. Membri delle famiglie della Guida suprema e del Direttore generale della radio-televisione di Stato hanno condannato pubblicamente la repressione statale, distanziandosi dai loro parenti altolocati. Le loro lettere aperte hanno fatto notizia a causa dei loro legami di parentela, rompendo sia l’ordine dello Stato sia quello della famiglia. Relazioni famigliari e politiche si intersecano rivelando una faglia trasversale all’antagonismo tra noi e loro che evidenzia divisioni “tra di noi” (bein-e khodeman). La parentela tanto unisce quanto separa.

Oggi in Iran la famiglia nucleare domina la pubblicità e la propaganda statale; molte coppie convivono senza contratti di matrimonio e i termini persiani khanevade e famil si riferiscono a un’unità economica e residenziale composta da due (o un) genitore e i loro figli. Questi due termini nondimeno continuano anche a indicare l’insieme delle due linee di parentela, quella paterna e quella materna, i cui rispettivi componenti svolgono ruoli diversi ma entrambi determinanti nella socializzazione dei figli, nell’economia domestica e nella vita di ciascuno di loro. Si investe tempo ed energia nelle relazioni con genitori, nonni, zii, zie e cugini da parte sia materna sia paterna. La socialità quotidiana è scandita dalla propria khanevade.

La parentela è un intreccio di rivalità e reciprocità, un groviglio d’intimità e scontro. Spesso la competizione tra parenti mi è stata descritta usando il vocabolario della guerra: attacco e difesa, posizioni conquistate e perdute, cessate il fuoco, contrattacchi, tregue e agguati. Questi conflitti determinano chi sta con chi, ma anche come ci si relaziona alla propria famiglia e quindi a sé e alla società. I parenti di parte materna e paterna in modo diverso ma ugualmente autorevole tendono a contenere e normalizzare atti percepiti come “inappropriati” (namanaseb che si potrebbe anche tradurre queer), spingendosi a ostracizzare quei componenti della khanevade che non si conformano, anche se poi si cerca spesso una riconciliazione. Tutt’altro che stabili, questi dis-equilibri dipendono dal reciproco posizionarsi dei parenti che definiscono via via cosa è appropriato in un determinato momento, in una situazione di costante allerta connessa tanto con la competizione per le risorse quanto con la pietas filiale.

Le differenze tra sessi sono intrinseche a questi conflitti intimi. Il patriarcato è una questione di parentela. I mariti sono spesso i padroni di casa, ma le mogli gestiscono l’economia domestica, mentre i parenti della moglie, i genitori in particolare, sovente influenzano le decisioni del nucleo famigliare. Al tempo stesso le mogli hanno risorse economiche personali che combinano con quelle affettive per costruire alleanze o scatenare battaglie per mantenere e migliorare la loro posizione con i propri parenti e quelli del marito. Marito e moglie lavorano spesso insieme per imporsi con i rispettivi parenti, ma, se litigano, rapidamente le alleanze si ridisegnano e ciascuno di essi si allea con i propri parenti contro il coniuge. Fratelli e sorelle che si incontrano ogni settimana invitandosi nelle rispettive case costruiscono reti di sostegno di fronte alle incertezze della vita, ma a volte conducono simultaneamente guerre per questioni di eredità o per mettersi in mostra e sentirsi più riconosciuti dai parenti. Amore e odio sono inestricabilmente legati.

Queste dinamiche si ritrovano nelle parole delle donne intervistate a proposito del velo in un podcast per Radio Marz (ringrazio Maryam Roosta per avermelo segnalato).

Diverse per età ed estrazione sociale le donne intervistate si descrivono al centro di una serie di relazioni concentriche: marito, genitori, gruppi di parentela materno e paterno, giovani uomini per strada, Stato/polizia

Diverse per età ed estrazione sociale le donne intervistate si descrivono al centro di una serie di relazioni concentriche: marito, genitori, gruppi di parentela materno e paterno, giovani uomini per strada, Stato/polizia. Ciascuno di questi cerchi concentrici è anche legato al modo oscillante in cui le donne si relazionano con se stesse: volere e dovere si costruiscono reciprocamente. Se il desiderio nell’Iran contemporaneo pare essere come altrove un desiderio di trasgressione, questo prende le forme di un conflitto interiore. Ma almeno come lo descrive autobiograficamente T.J., in uno dei siti di analisi critica più in vista nel Paese, più che di semplice scelta individuale si tratta di un conflitto tra pulsioni che riformula con un vocabolario femminista i termini di quella che la tradizione religiosa descriveva come la tensione tra indole da un lato e volontà dall’altro (tra parentesi: Emad Mortazavi vede in questo desiderio di rivolta il segno più profondo dell’internalizzazione dello Stato, un complesso di Edipo a cui invita a sottrarsi).

Che si tengano o tolgano il velo, le donne intervistate nel podcast dicono di avere il sostegno dei loro mariti, mentre descrivono i propri padri come molto preoccupati di quello che i parenti potrebbero pensare se le figlie si togliessero il velo alle feste di famiglia o in strada. Alcune delle donne intervistate spiegano che il loro uso del velo dipende dal contesto. Trovano più facile uscire senza velo in strade anonime o in città dove nessuno le conosce. Esprimono preoccupazione per le parole e gli sguardi dei parenti. Paura e ansia, ma anche sentimenti filiali accompagnano i loro racconti. Preoccupata del modo in cui sarebbero state trattate le figlie, una madre ammette di aver controllato per anni in maniera eccessiva il loro guardaroba, per conformità all’ordine costituito, ma anche per evitare guai con la polizia o con giovani uomini. Per le donne intervistate la religione è importante, ma norme religiose e famigliari sono difficilmente separabili. Quando considerano l’intensità del sentimento religioso dei parenti di parte paterna o materna, queste donne parlano senza soluzione di continuità anche delle relazioni affettive che loro stesse e i loro genitori hanno con questi parenti, spesso insistendo che ciò che è considerato come appropriato in famiglia non ha nulla a che fare con la fede.

Lo sguardo della società, e a volte persino dello Stato, preoccupa meno queste donne dell’occhio vigile dei famigliari

Consapevoli dei legami dei propri genitori con la famiglia allargata, alcune delle donne intervistate dicono di esitare a mettere i loro parenti stretti in situazioni difficili. Altre vedono lo stare senza velo in presenza di parenti come supremo gesto di autoaffermazione, uno strappo ben più grave che camminare senza velo in strada. Lo sguardo della società, e a volte persino dello Stato, preoccupa meno queste donne dell’occhio vigile dei famigliari, anche se le norme su come comportarsi in pubblico vanno ben al di là del velo e si riferiscono a uno spettro molto più ampio e non meno carico di aspettative di ciò che è appropriato fare. Una delle intervistate racconta che mentre camminava senza velo per strada una donna sulla sessantina l’ha avvicinata facendole i complimenti e ha aggiunto: “La prossima volta però perché non ti pettini i capelli, cara?”.

Uno sguardo anche sommario alla parentela scombina la semplice opposizione tra libertà individuale e oppressione che per molti è la chiave di lettura delle proteste in Iran. La parentela suggerisce invece di considerare l’ambivalenza intrinseca delle relazioni. Da un lato la famiglia appare come uno spazio di affetti e conforto, una linea di demarcazione tra chi è con noi e chi è contro di noi. Dall’altro però è il luogo delle lotte intestine più profonde. Da questo punto di vista, la violenza feroce durante le proteste è più il segno di una insopportabile vicinanza che quello di una differenza radicale. La violenza non è solo opera di altri dai quali ci si può distinguere, ma è dimensione intrinseca del relazionarsi a sé e con altri. La violenza rivela il nesso tra intimità e ostilità. Conflitto è relazione. Tale è il gioco tra legge e desiderio. Pensare il nesso costitutivo tra legge e desiderio complica non solo la differenza tra bene e male ma costringe anche a rielaborare il significato della nozione di politica in Iran e altrove.

 

[Ringrazio Bruno Riccio per l’invito all’Università di Bologna e per il vivace dibattito insieme a Paolo Gaibazzi, Alessandra Gribaldo, Giovanna Guerzoni, Chiara Pilotto e gli altri presenti.]