“Ormai non abbiamo più paura. Lotteremo”, così uno slogan imprimeva uno scarto di paradigma alle proteste di piazza in Iran, scattate dopo la morte di Mahsa Jina Amini il 16 settembre 2022, in seguito al suo arresto da parte della cosiddetta polizia morale (Garsht-e Ershad). Era il 7 ottobre e quelle parole tracciate con una bomboletta spray su un lenzuolo bianco che campeggiava su un ponte della Modarres, una delle autostrade più trafficate di Teheran, sancivano l’impensabile divenuto realtà. Il regime non fa più paura. La lotta punta in alto, parte da “donna, vita, libertà” contro l’obbligo del velo, ma vuole andare oltre. La parola “riforma” cede il passo al desiderio di rivoluzionare un sistema che ha perso legittimità in diversi segmenti della popolazione, in primis tra le donne e i giovani, contro un regime che però appare ancora compatto seppur attraversato da un acceso dibattito interno. La spaccatura tra Stato e società sembra diventata incolmabile. L’ordinario si è fatto miccia di una protesta che parte dal velo, ma non è più individuale o confinata alla sola questione femminile. Questa cresce lentamente, ma si fa collettiva, nonché traversale in tema di classe, generazione, componente settaria, distribuzione geografica.

Proprio in quei giorni alcuni gruppi di lavoratori iniziano a solidarizzare con le manifestanti e gli uomini scesi in piazza per sostenere le donne in prima linea. Tra le prime immagini a fare il giro del mondo, grazie a un video amatoriale diffuso da Bbc Persian, sono quelle degli operai petroliferi di Asaluyeh, nella provincia di Busher. Nelle settimane successive, tra fine ottobre e metà novembre, insegnanti e operai iniziano a organizzare sit-in e scioperi locali, a Teheran, Isfahan, Abadan e altre località nel Kurdistan iraniano. I negozianti abbassano le saracinesche a Saqqez, la cittadina d’origine di Mahsa Jina Amini.

Il potenziale rivoluzionario della partecipazione dei lavoratori è tanto promettente quanto di difficile esplosione. I numeri degli operai che partecipano agli scioperi, dalla famosa fabbrica d’acciaio di Isfahan a quelli dell’industria petrolifera nel sud del Paese, sono ancora limitati. Le iniziative sono prive di un coordinamento nazionale e di leadership consolidata. A gestire le proteste indipendenti sono principalmente lavoratori precari, assunti con contratti a tempo determinato. Un vero e proprio movimento dei lavoratori coeso, forte e su base nazionale al momento non esiste, nonostante le spinte dal basso di iniziative come quelle del sindacato autonomo degli autisti Sherkat-e Vahed di Teheran o quello della fabbrica di zucchero Haft Tapeh nel Khuzestan iraniano, che sono state obiettivo di diverse ondate di repressione negli ultimi anni.

In un Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, privo di leader nazionali e reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo introito economico

Lo sfilacciamento del tessuto sociale e collettivo di oggi fonda le sue radici non solo nell’oppressione dei movimenti indipendenti, laddove i sindacati autonomi non hanno alcun riconoscimento giuridico nello statuto del lavoro della Repubblica islamica. La difficoltà di organizzazione politica, trasversale di classe – e quindi di un’alleanza coesa tra le peculiari istanze operaie di giustizia sociale e le altre rivendicazioni politiche emerse nelle proteste – trova fondamento nelle politiche di stampo neoliberista implementate a partire dagli anni Novanta, iniziate con il presidente pragmatico Hashemi Rafsanjani. Erano gli anni di ricostruzione dopo otto estati di guerra con l’Iraq (1980-1988), quelle del “produci e consuma” per la Repubblica islamica, quelle del mito del vincente e dell’esaltazione dell’individuo. Negli ingranaggi di quel mantra volto a liberalizzare il Paese e ad aprirlo alla scena internazionale hanno anche trovato spazio le diverse riforme legislative che – a più riprese e sotto diversi governi – hanno indebolito il potere contrattuale dei lavoratori. E oggi, in un Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, frammentato, privo di leader nazionali e coordinamento capillare, reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo introito economico.

I lavoratori sono ancora ai margini di queste proteste che hanno dimostrato caratteristiche evolutive uniche e di natura rivoluzionaria, anche se ancora sono esposte a una serie di vulnerabilità politiche dovute principalmente alla mancanza – allo stato attuale delle cose – di connessioni sociali in grado di prospettare la formazione di una coalizione politica di piazza stabile e coesa. I legami trasversali di classe sono de facto cruciali per trasformare le proteste in episodi rivoluzionari costanti e di massa.

Nel 1979 gli operai hanno sigillato il successo della rivoluzione iraniana, che è stata polifonica e ha visto condividere le strade a intellettuali, studenti, religiosi, mercanti del bazar, liberali, esponenti di sinistra, lavoratori e donne, sotto la leadership dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Quando gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il loro contributo è stato determinante. Insieme ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale. È l’Iran dei mesi del momentum rivoluzionario, tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979, quello raccontato nelle parole degli storici Ahmad Ashraf e Ali Banuazizi. L’Iran consumava la sua rivoluzione, che “paralizzava” la macchina pubblica e il regime dello Shah Reza Pahlavi, per poi rovesciarlo. Scioperi a oltranza per le condizioni economiche disagiate, in rivolta contro salari da miseria e inflazione, decapitavano – in nome degli oppressi (mostaz’afin), e in ultima istanza grazie ai lavoratori organizzati – un sistema di potere che aveva creato sacche di disuguaglianza considerate ormai insostenibili.

Quando nel 1979 gli operai si sono finalmente uniti alla coalizione rivoluzionaria, il loro contributo è stato determinante. Insieme ai colletti bianchi e agli impiegati, hanno sbarrato l’accesso a molti servizi essenziali e alle industrie e, alla fine, hanno paralizzato l'apparato statale

Oggi, in un contesto dove l’impensabile per le generazioni precedenti è già avvenuto, perché la paura e le richieste di riforma hanno fatto strada alla rivolta anti-sistema, un cambiamento radicale sembra ormai inevitabile. I tempi e le modalità sono ancora da definire, e i lavoratori potrebbero essere agenti cardine di questo processo di trasformazione.

Nonostante le attuali proteste abbiano stimolato l’aggiornamento di alcune griglie analitiche del passato con la loro nuova grammatica della rivolta, un passaggio fondamentale in grado di aggiungere slancio all’attuale movimento acefalo, coraggioso e non violento – in contrasto alla brutale repressione da parte del regime – sarebbe quello della resistenza civile potenziata da scioperi a oltranza.

Anche se uno sciopero di massa e capillare sembra al momento non di facile concretizzazione, il processo di condivisione delle istanze di rivolta è in accelerazione. Le connessioni tra classi diverse sono fragili, ma si stanno formando lentamente. Nonostante le divisioni precarie, le aperture del regime rivolte principalmente agli indecisi e le tecniche di sabotaggio volte a scoraggiare la fiducia nelle proteste, si intravedono – ma ancora troppo deboli – gli elementi per un cambiamento radicale e condiviso. Parte della popolazione iraniana sta provando a tessere quelle reti fitte di organizzazione politica che servirebbero alla causa della piazza che spera in una vita diversa. Perché la strada – nelle parole del sociologo Asef Bayat – “è uno spazio per creare ed esprimersi, uno spazio dell’identità [collettiva] e della solidarietà. È un luogo dove il familiare si intreccia con il non familiare, e condivide un dolore comune. La strada ha la straordinaria capacità di trasformare un raduno di 500 persone in una folla di migliaia e migliaia”.