Chi ha avuto occasione di passare da Stoccolma a Palermo e viceversa in un breve lasso di tempo ha chiara la percezione della diversità di queste due realtà, che geograficamente appartengono all'Europa ma culturalmente sono agli antipodi. È una percezione fisica diretta prima ancora che culturale e tuttavia taciuta alle coscienze e ignorata dalla pubblicistica. L'Europa ha vissuto gli ultimi settant'anni nella convinzione che tutti siamo uguali anche quando siamo diversi. Un secolo di guerre ha prostrato il continente e il desiderio di pace si è rivelato più forte di qualsiasi differenza. È infatti l'universalità che ha preso il posto del particolarismo, ovvero della specificità nazionale. La guerra ha reso tutti eguali e dalla comune condizione esistenziale è sfociato un senso di appartenenza. L'idea di Europa che conosciamo parte da qui. Uno slancio del cuore che sublima i sensi di colpa, gratifica le coscienze e, se proprio non riesce a superare le differenze, le ignora.

Perché le differenze rimangono. La stessa ricostruzione dei primi anni Cinquanta le mette di nuovo in evidenza. La Germania cerca manodopera e l'Italia la offre. Qual miglior segno di squilibrio economico. Mentre in Germania il marco si rinsalda e diventa la moneta forte per antonomasia, in Italia, dopo il 1960, la lira si trasforma in liretta, con un'inflazione a volte a due cifre e un debito pubblico mai sotto controllo. Macroscopiche diversità che però vengono declinate alla voce: siamo tutti uguali e il tempo ci darà ragione. La fede assoluta nell'economia è il grande volano che guida verso l'eguaglianza. Quella predicata dalla Rivoluzione francese, ma anche quella degli anglosassoni per i quali la vita è una grande corsa, dove si vince e si perde ma a tutti è data la possibilità di partecipare.

È dunque «eguaglianza» la parola chiave per definire lo sviluppo dell'idea d'Europa negli ultimi decenni, quella dei diritti umani e civili e quella del benessere per tutti. Un'idea talmente vincente da far scuola anche in altre parti del mondo. In nome del libero mercato e delle uguali opportunità arrivano infatti prodotti cinesi, brasiliani, thailandesi ecc. Un'offerta accolta con diffidenza ma alla quale, per motivi etici ancor prima che economici, non si può dire di no. Ed è a quel punto, cioè sui prezzi stracciati di una concorrenza inarrivabile, che l'equilibrio si rompe.

Nel frattempo si crea un effetto calamita che attrae i popoli colpiti da guerre e povertà: nasce l'emergenza dei migranti. Un'invasione pacifica guidata da quella stella polare che è il marchio di fabbrica della costruzione europea: pace, diritti e reddito per tutti. Ma le speranze degli uni diventano incertezze e rinunce per gli altri. È a quel punto che insorgono le particolarità nazionali sinora tenute in soffitta. Nell'appellarsi alla propria identità, i popoli d'Europa capiscono che l'accento sinora posto a tutto ciò che unisce non basta a definire il loro esistere.

Vi sono tradizioni, costumi, modi di essere vivificati da secoli di storia e ora improvvisamente percepiti a rischio. Gli abitanti del continente più che benessere hanno ora da spartire regole, vincoli, austerità, crescente povertà. Mettere la sordina all'identità storica e sostituirla con il politicamente corretto è stato il grande azzardo della costruzione europea. Nel caso tedesco il tentativo è emblematico. Impresentabile per un passato che non passa mai, la quarta potenza economica mondiale deve conquistare la fiducia del mondo, cioè dei suoi possibili futuri clienti e fornitori. Con l'operazione braccia aperte condotta dalla cancelliera Merkel, la Germania appare di colpo all'opinione pubblica mondiale come il Paese leader dei diritti umani.

La copertina di "Time" per Angela Merkel come donna dell'anno 2015, i riconoscimenti pubblici degli opinion makers come George Clooney ricevuti dalla cancelleria di Berlino attestano un passaggio dall'immagine del tedesco cattivo, con un passato razzista e nazista, a quella consolante di protettore dell'umanità negletta, dei poveri e degli afflitti. Un piccolo capolavoro di cui va dato atto a frau Merkel, la cui liberalità è tuttavia da leggersi nell'indagine interna commissionata al ministero delle Finanze dal suo titolare Wolfgang Schaeuble. L'industria ha un disperato bisogno di manodopera qualificata, l'andamento demografico decrescente non la garantisce. Ergo, siamo in emergenza.

Se per ogni thriller che si rispetti la domanda chiave è “cherchez la femme”, nel nostro caso la risposta ha un nome al femminile e si chiama demografia. I siriani sono la soluzione del problema: hanno un livello alto di istruzione di base, fuggono da una guerra civile. Vi sono tutti i presupposti perché la cosa possa piacere anche all'elettorato del partito di frau Merkel, che dallo sviluppo dell'industria trae il proprio reddito e benessere. Ma è bastato un disgraziato Capodanno 2015 a Colonia per rendere evidente come la tolleranza sia possibile a condizione che l'identità culturale dei popoli non sia percepita in pericolo. L'idea di fallire nel tentativo di fare dei migranti cittadini con nomi esotici, ma con un'educazione tedesca, si attarda nelle coscienze.

L'Europa non è l'America dove tutti erano benvenuti, tranne i primi abitatori nel frattempo sterminati. Qui vi sono culture che si sono succedute nei secoli e a ognuno è data un'identità precisa. Ed è proprio sullo scoglio della diversità altrui che si misurano le diversità europee. Così il profugo diventa la cartina di tornasole dei dissapori europei. E mentre in Sicilia ai migranti si dà il benvenuto, salvo poi farli ripartire per altre destinazioni, in Svezia si chiudono le frontiere. E ciò che per l'italiano è liberalità, al nordico appare assenza di responsabilità. Si sta affermando l'identità fatta di radici, di terra, di figli e di antenati e non c'è emergenza economica e umanitaria in grado di sostituirli. Le due dimensioni possono convivere ma non collidere. Questa è la lezione che anche frau Merkel sta imparando.