«Già nel 1991, nell'introduzione alla Laborem exercens, il pensiero di papa Wojtyla non era ottimista, e tutt'altro che in linea con l'euforia liberale allora di moda. Tuttavia in quella stagione le parole del pontefice acquistano un senso e uno spessore addirittura profetico, anche se attribuibile almeno in parte alla tradizionale cautela della Chiesa in materia sociale ed economica.

"Celebriamo il novantesino anniversario dell'enciclica Rerum Novarum alla vigilia di nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche che, secondo molti esperti, influiranno sul mondo del lavoro e della produzione non meno di quanto fece la Rivoluzione industriale del secolo scorso. Molteplici sono i fattori di portata generale: l'introduzione generalizzata dell'automazione in molti campi della produzione; l'aumento del prezzo dell'energia e delle materie di base; la crescente presa di coscienza della limitatezza del patrimonio naturale e del suo insopportabile inquinamento; l'emergere sulla scena politica dei popoli che, dopo secoli di soggezione, richiedono il loro legittimo posto tra le nazioni e nelle decisioni internazionali. Queste nuove condizioni ed esigenze richiederanno un riordinamento e un ridimensionamento delle strutture dell'economia odierna, nonché della distribuzione del lavoro. Tali cambiamenti potranno forse significare, purtroppo, per milioni di lavoratori qualificati, la disoccupazione, almeno temporanea, o la necessità di un riaddestramento; comporteranno con molta probabilità una diminuzione o una crescita meno rapida del benessere materiale per i Paesi più sviluppati."

Sono parole che, grazie a una visione di lungo periodo, fanno giustizia di ogni retorica sulla crescita, con larghissimo anticipo sulle previsioni catastrofiche con cui Nouriel Roubini non riuscí a convincere il Fondo monetario internazionale sull'imminenza della crisi. E pongono seri dubbi sul ritorno ai ritmi di sviluppo a cui il mondo occidentale era abituato. Ma, se questo è vero, le prospettive si fanno grigie. Nel senso che occorrerà trovare un punto di equilibrio nuovo. Già adesso, se si passa in città americane come Detroit, che subisce l'effetto rovinoso della crisi automobilistica, si rimane colpiti dal livello di degrado urbano. I muri diroccati, le vetrate infrante delle fabbriche, le serrande abbassate, sono panorami che sembrano preludere per il futuro a una civiltà degradata senza rimedio.
Quindi ci si chiede come la società americana potrà uscire dalla crisi del capitalismo che ha creato. È probabile che le comunità economiche si dividano nettamente in due. Da un lato i grattacieli della finanza, dove si fanno soldi con il trading e gli edifici luccicano; dall'altro le fabbriche residue, sordidi avanzi del mondo industriale popolati dalle schiere dei Lumpen.

Ma se il modello angloamericano si sta trasformando in un universo post-storico, con una prevedibile drammatica divisione di classe e conflitti sociali ancora indescrivibili, si tratta ora di vedere in quali condizioni l'Europa riuscirà a riemergere dalle spire della recessione. La domanda è inevitabilmente brutale: un ordine sociale fondato su un'economia regolata dallo Stato e temperata dal welfare può riaffiorare nella globalizzazione ritrovando un ruolo e una posizione competitiva?» [E. Berselli, L'economia giusta, Torino, Einaudi, pp. pp. 87-89].

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