«Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa, ma è anche gioiosa: mi sovvengono i piccoli dell'uomo, gli alberi e gli animali. Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?

E terrestre l'ho fatto troppo mio o l'ho rifuggito?

La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d'amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l'ho discussa.

Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego».

[Mario Luzi, Commento scritto per la Via crucis del Venerdì santo del 1999, «Gesù è inchiodato alla croce»]

 

Mario Luzi era mio zio, la persona che con mio padre più ha influenzato la mia vita. Ma non è certo una riflessione biografica che mi ha indotto ad estrarre questo frammento da un testo difficile, complesso, che Giovanni Paolo II lesse, con la voce ormai incerta di quegli anni, rendendo ancora più emozionante la lettura.

Mi è tornato in mente perché quel testo oggi ci parla, insieme con angoscia e durezza, di una congiuntura che noi tutti viviamo, o meglio dovremmo vivere, ma che in tanti rimuoviamo. «È bella e terribile la terra». Bella e terribile. Oggi tutti si sentono in dovere di parlare dello stato della terra; forse bastano quei due aggettivi: bella e terribile. Come ci sorprende che il Dio che si fa uomo, definisca la gente povera, amabile e esecrabile. Quanti oggi saprebbero riprendere quelle parole così chiare e dure? Perché la povertà non si accompagna all’essere buoni, spesso induce a comportamenti esecrabili. E guai se il nostro giudizio diventa allora moralista.

Ma Gesù a questa terra, persino ai suoi deserti, si affeziona «e gli dà pena abbandonare». E aggiunge: «ti ho portato, cuore umano pieno di contraddizioni, persino dove avevi dimenticato di essere stato». Il commento di Luzi non è pacificante, né consolatorio «la vita sulla terra è dolorosa, ma anche gioiosa», ma lì sul Calvario non c’è più. E Gesù patisce questo distacco.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco. E il terrestre lo ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?

Qui inizia il passo che più oggi ci dovrebbe far meditare: «Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco. E il terrestre lo ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?». L’esegesi di questa frase ci porterebbe troppo lontano e io non ne ho gli strumenti necessari. Certo, colpisce il dubbio che dovrebbe aleggiare in tutti noi, in un tempo di diseguaglianze, indifferenze, doppie morali: il dubbio e la ricerca del dialogo, che qui Gesù cerca con il Padre, è davvero da noi lontanissimo. E ancor più lontana è la frase successiva: «Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto […] Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti, le vigne, perfino i deserti. È solo una stazione per il figlio Tuo la terra ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case e i loro ricoveri mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te».

È però la frase successiva quella che ancor più colpisce e ci fa molto male. «La nostalgia di Te è stata continua e forte, tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna». Gesù chiede al Padre di «non giudicarlo per la sua umanità». Guardarsi intorno e scoprire che oggi questo capita ben raramente e che non si tratta di misericordia: è ben di più. È accettazione di un’umanità che senza dialogo, senza rinunzie ai propri pregiudizi, non può neanche iniziare il cammino della conoscenza. E infatti Gesù così prosegue, nel commento, «Padre, non giudicarlo questo mio parlarti umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d'amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l'ho discussa. Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego».

C’è dentro questa dichiarazione di amore troppo perché io possa in poche righe tentarne un’esegesi. Vorrei solo segnalarne il punto «sono venuto sulla terra per fare la Tua volontà eppure talvolta l’ho discussa».

Tutte le volte che leggo e rileggo queste parole, mi domando se lo zio non si si sia troppo calato in vesti impossibili, che quel suo Gesù non fosse troppo schierato a difesa di un’umanità che lo stava crocifiggendo. Un atto estremo di voler rimanere legato anche alla terra, quando dalla terra stava andandosene. Non solo discutendone con lui, ma ogni volta che vado al cimitero di Castello dove ha voluto essere sepolto vicino ai suoi genitori, quel Dio così umano, mi sembra sempre più lontano, e insieme più necessario ogni giorno di più.

Neanche una pestilenza, che non si arresta, che anzi rilancia la sua virulenza, ci aiuta a fermarci e a meditare. Invochiamo la scienza e le sue verità che, come sempre, sono verità transitorie, o ci rifugiamo in mille impegni che dovrebbero liberarci dall’ansia di… pensare. Gesù, emerge da quello poche righe di commento, ci dice cose ben più radicali. Ci dice che a volte la povertà, che per noi ormai è un numero del telefono con cui soccorrere non si sa chi, e questo è importante, può, proprio per la miseria cui noi obblighiamo gli altri, farli diventare esecrabili. Che Lui ci ha portati in «luoghi» (davvero vorrei avere più spazio) che avevano dimenticato esistessero (e non sono certo le imperdibili nostre vacanze); che a lui, Gesù, il congedo dalla terra dà angoscia e si domanda se questo non nasca dall’essersi fatto troppo uomo tra gli uomini? Quando mai noi ci domandiamo se un nostro gesto non nasca proprio dall’aver accettato troppo l’umanità, piena di contraddizioni di cui Gesù ci parla? E ancor più Gesù cerca come risposta il dialogo e nel dialogo con Dio riconosce che a volte a messo in discussione la stessa volontà del Padre.

Noi oggi riusciamo a non rispondere alla violenza e all’ineguaglianza che ci circonda, al dolore e persino all’ultimo passo della nostra vita, assicurandoci che il coinvolgimento non metta in discussione come siamo arrivati lì

Non voglio trasformare un testo di mio zio in quello che mai avrebbe voluto fosse. È una meditazione, nel senso profondo che al termine dà Pierre Hadot nella sua prima scrittura di Excercices spirituels et philosophie antique. I dubbi nascono, come a Gesù, se non solo ti fermi, ma ti fai «interrogare dalla vita». Il dubbio cristiano, che in questo commento tocca uno dei suoi punti più significativi, non nasce da un’interiorità da Stilita, nasce dal dialogo con la natura, gli uomini, i poveri, i luoghi e dalle domande che essi ti pongono. Noi oggi riusciamo a non rispondere alla violenza e all’ineguaglianza che ci circonda, al dolore e persino all’ultimo passo della nostra vita, assicurandoci che il coinvolgimento non metta in discussione come siamo arrivati lì.

È l’ipocrisia dilagante da Glasgow ai piani di resilienza, dal non saper ascoltare l’altro al reificare la nostra vita, per paura che il dubbio ci accompagni in luoghi che abbiamo dimenticato. E allora che ci può venire in aiuto il più alto esempio di disobbedienza, per essere più vicini anche solo alla propria umanità.

Noi non usciremo, né culturalmente, né politicamente, da questa pandemia se non ritorneremo a riflettere a un Gesù che prova angoscia dal lasciare una terra che per lui è un tempo infinitamente breve della sua vita. Che cosa significa?

Certo una risposta non la troveremo negli algoritmi o nelle donazioni anonime che si compiono formando numeri. Se non ci coinvolgiamo con le troppe miserie che ognuno di noi vede, appena alza la testa e guarda, non vede, altro che «la pandemia che ci cambia» di cui tutti si riempivano la bocca: ci avvicineremo ancor più alla falsa vita che François Julien ci descrive nel suo ultimo libro.

Grazie zio, anche del coraggio dei tuoi pensieri.