L’incendio è divampato di nuovo, anche da noi. I dati sui decessi, dopo un’estate piena di buone e sole speranze, sono di nuovo esplosi adagiandosi nei giorni scorsi sulla curva esponenziale con raddoppio di circa una settimana. Come ben spiegato in diverse sedi se l’epidemia continuasse così a metà novembre avremo circa 500 vittime al giorno e subito dopo sarebbero destinati a crollare il tracciamento prima e le terapie intensive poi. A quel punto il lock-down sarebbe inevitabile. Per capire cosa sia accaduto servirà molto tempo ma per ora, in questa sede, ci preme solo (ri!)marcare e motivare un appello accorato: per fare ricerca sull’epidemia la comunità scientifica abbisogna di dati, di dati nudi e non già elaborati, di dati ovviamente e per carità senza nomi e cognomi, e magari di dati raccolti con criteri opportuni perché per rispondere a domande e problemi specifici quali la prevenzione non bastano dati qualsiasi raccolti alla bene o male, servono dati con una struttura ben precisa.

Ma non siamo già sommersi continuamente di dati sul Covid da mesi? I dati da cui veniamo inondati ogni giorno dai mezzi di comunicazione sono per lo più quelli sui numeri dei contagi (rilevati!) e sui decessi, e ora stanno ricominciando anche quelli sui numeri di ricoveri in terapie intensive. Da questi dati tutti (chi più chi meno… taluni molto meno!) hanno imparato a riconoscere la gravità della situazione. Infatti dal punto di vista epidemiologico l’esponenziale è come quando la febbre sale velocemente e il paziente (la nostra società) rischia il collasso. Ma la temperatura è solo un segnale, seppure importantissimo, ma ha una utilità limitata anche per la diagnosi figuriamoci per la prevenzione. Per controllare, spegnere o prevenire un’epidemia da virus ci sono due grandi classi di competenze, quelle virologiche e quelle epidemiologiche. In questa sede parliamo delle seconde.

Dal punto di vista epidemiologico la conoscenza che abbiamo è ancora scarsa. Non sappiamo come classificare gli eventi della vita quotidiana (andare a fare la spesa, a scuola, al ristorante ecc.) associando loro un rischio cioè un numeretto tra zero e uno che ci dica con quale premura avremmo dovuto evitarli questa estate per esempio. Questo numeretto non si sogna come i numeri al lotto e non è il caso di inventarlo a naso, perché così facendo si corre un altro rischio comunque molto serio: chiudere settori della nostra economia che risultano vitali per il Paese.

Come si fa dunque a trovare questi numeretti? Intanto si può cercare di stimarli statisticamente dai dati che le regioni stanno spedendo al governo da mesi e che, fatto gravissimo e inqualificabile, non sono messi a disposizione dell’intera comunità scientifica e del pubblico come avviene invece in altri Paesi.

Ma sono forse dati sensibili? I dati di cui stiamo urgentemente chiedendo la resa pubblica non hanno alcun riferimento alle informazioni sull’identità dei singoli individui, in altre parole sono dati compatibili con ogni forma di protezione della privacy. Se pure all’origine fossero nominali vengono poi anonimizzati. Il pregio dei dati di cui parliamo è che sono disaggregati cioè non hanno subito elaborazioni che li sintetizzano facendo loro perdere la maggior parte dell’informazione che contengono. Così digeriti essi diventano quei grafici e istogrammi vari che vanno forse bene per i comunicati stampa, non per fare ricerca.

Perché serve metterli a disposizione di tutti? Poche semplici ragioni: la scienza non è una impresa di pochi o di alcuni tra gli scienziati, è una impresa collettiva dove i risultati migliori della ricerca emergono dal dibattito, dal confronto, talvolta anche acceso, tra tutti quelli del mestiere. Un risultato scientifico merita questo nome solo quando è condiviso dalla comunità nella sua grande maggioranza. Mettere i dati a sola disposizione di una minoranza esigua di scienziati, per quanto professionalmente capaci, minaccia non solo la qualità della ricerca ma in condizioni come queste minaccia la salute pubblica perché, al meglio, rallenta pesantemente il progresso. L’Accademia dei Lincei ha da mesi messo in luce questa necessità, senza alcun esito noto da parte del governo, ricordando anche le ragioni di trasparenza e oggettività su cui si basa la fiducia delle persone verso le istituzioni nei paesi democratici. I dati devono essere resi pubblici inoltre perché le modalità in cui vengono presi potrebbero essere sghembe o inadatte alle domande a cui urge trovare risposta e questo feedback tra i dati come sono e come dovrebbero essere è di nuovo un processo che tutta la comunità scientifica interessata e disponibile deve essere messa in grado di fare. In due parole la scienza è intrinsecamente democratica. I dati infine devono essere resi pubblici perché per risolvere un problema di epidemiologia nuovo magari servono competenze interdisciplinari che non si trovano con certezza dentro la disciplina che ne ha bisogno ora, ma forse sono già a disposizione di altre, in particolare le scienze dure usualmente avvezze a trattare problemi di diffusione.

Infine una considerazione su cui riflettere. Nell’estate appena trascorsa i casi erano pochi e circoscrivibili, una condizione chiamata di bassa densità che permette a procedure accoppiate quali il tracciamento elettronico e manuale di essere efficaci. Di cosa si tratta? Immaginiamo di poter mettere dei rilevatori di fumo in certi punti del bosco. Quando uno di questi ci invia il segnale si accorre isolando e spegnendo il fuoco prima che divampi, proteggendo soprattutto le parti sottovento. Per fare questo lavoro serve una mappa del bosco con la posizione delle piante e degli arbusti e il loro grado di infiammabilità e serve anche sapere la velocità del vento nei vari punti del bosco che in questa metafora imperfetta rappresenta la mobilità sociale. Il grado di infiammabilità delle aree è la collezione dei numeretti di rischio di cui abbiamo già parlato. Tutto il resto invece sembra non essere stato neppure raccolto. A torto o a ragione, per questioni mai sostanziali e che al meglio sono state di opportunità politica con forti componenti ideologiche, tutta l’impostazione data al tracciamento elettronico nel mondo occidentale è stata basata non su una mappa del bosco ma su tanti suoi piccoli fotogrammi sconnessi. Le App di tracciamento quindi hanno dovuto lavorare con un database povero. Le altre App invece, per esempio quelle di intrattenimento social, sanno sempre dove siamo, chi incontriamo e imparano anche a prevedere i nostri acquisti, perché pur di usarle l’utente diventa, nella sfera privata, molto più parsimonioso con la sua purezza ideologica. Con un tracciamento elettronico poggiato su un database completo, accompagnato da un serio investimento di personale collegato alle informazioni che quello avrebbe potuto generare, ci saremmo trovati in condizioni migliori per evitare la recidiva. Certo le risorse sono limitate ma ad incoraggiare investimenti forti e coraggiosi del governo verso la prevenzione sembra non sia bastata neppure la costatazione che il lock-down è molto, molto, molto costoso sia economicamente che politicamente.

Abbiamo sperato per il meglio a marzo, ci siamo ubriacati di speranza d’estate, speriamo ora nei vaccini e nella buona sorte (indossando una mascherina ffp2). Se poi la comunità scientifica fosse messa nelle condizioni di dare il suo contributo questa speranza avrebbe delle basi molto più solide: dati, pubblici, subito!