Le polemiche e le proteste degli insegnanti italiani sulla legge di riforma del sistema scolastico nazionale hanno assunto nelle scorse settimane toni assai violenti, e ancora proseguono, dal momento che il governo ha già ottenuto il voto della Camera, e dunque la legge sta diventando realtà. Uno dei suoi effetti sarà quello di disegnare una nuova figura di dirigente scolastico, dalle prerogative e dalle responsabilità decisamente accresciute,che è diventato nel lessico della protesta il "preside-sceriffo", il "preside autocrate", il vertice di una "scuola aziendalista" e anticostituzionale: uno dei suoi poteri sarà infatti quello di conferire e di riconfermare o meno nella sua scuola, a cadenza triennale, gli incarichi ai docenti di ruolo titolari sugli albi territoriali.

Questa innovazione ha una sua logica, forse sfuggita a molti, che è quella di potenziare la scuola dell'autonomia: se, infatti, le scuole devono costruirsi dei profili specifici, tenendo conto del contesto sociale e culturale in cui sono chiamate a operare, è evidente che devono essere svincolate il più possibile dal controllo centrale. I dirigenti devono dunque rappresentare dei vertici decentrati della gerarchia ministeriale, assumendo nuove prerogative e compiti di governo delle scuole. Chi dissente da questa impostazione dovrebbe farlo auspicando un centralismo più accentuato: dunque, tanto per cominciare, nessuno spazio alla progettazione didattica autonoma, ma il ritorno alla vecchia idea di “programma” disciplinare uniforme per tutto il territorio nazionale, con conseguente scomparsa del Fondo d'istituto, che in questi anni ha permesso ai docenti più attivi anche di incrementare il magro salario mensile. Appare dunque un cortocircuito il richiamo, all'interno della protesta, alla libertà d'insegnamento contro la scuola dell'autonomia.

Ma questo è solo il primo sintomo di un male più preoccupante. I docenti “arrabbiati” hanno rivelato, ahimè, anche agli occhi dell'opinione pubblica, una mentalità pericolosamente autoreferenziale. Sono apparsi come una tra le tante corporazioni in cui in Italia si organizzano le forze lavorative. Questo è un altro cortocircuito con l'idea costituzionale di scuola pubblica come istituzione dello Stato. Gli insegnanti si sono autorappresentati come degli “aventi diritto”: al posto fisso e alla libertà d'insegnamento. Per colpa certo anche di un'informazione avida d’isterismi e tendente al miserabilismo, nei giorni delle proteste di piazza si è affermata l'immagine di un docente poco orientato verso i bisogni culturali del Paese e molto preoccupato di dover riconoscere sopra di sé una funzione gerarchica predisposta per il buon funzionamento del sistema. È, invece, proprio l’idea di sistema quella che il governo sta cercando, seppur in modo molto maldestro, di sviluppare nella mentalità dei docenti della scuola pubblica, i quali nella scuola secondaria (la primaria per fortuna è, in questo senso, un’isola felice, e da molti anni) praticano poco o niente una collaborazione nella didattica, tendono a restare chiusi nei propri ambiti disciplinari e talvolta sono poco inclini alla riflessione su tematiche pedagogiche e sociologiche.

La supervisione del nuovo dirigente scolastico, in un uso corretto delle prerogative a lui affidate, potrebbe riguardare non tanto le conoscenze nell’ambito di una certa materia, quanto la capacità adattiva dei docenti all'innovazione didattica e alle relazioni interpersonali, in primis quella con gli alunni. I docenti, nella temibile prospettiva di un mancato rinnovo dell'incarico triennale in una certa scuola, sarebbero spinti a mettersi in gioco focalizzandosi anche su quelle competenze sociali che sono indispensabili nel loro profilo professionale. Il clima potrebbe diventare inospitale per quegli insegnanti narcisi che parlano a se stessi nelle lezioni frontali, per i tormentatori che praticano con convinzione una didattica vessatoria, o per quelli che "non sanno tenere la classe", e certo anche per coloro che, invocando (in buona fede?) la libertà d'insegnamento, non hanno praticato un serio autoaggiornamento disciplinare e pedagogico o si sono dispersi in ricerche personali perdendo di vista il focus della loro professione, ossia gli allievi. Il dato allarmante della dispersione scolastica (17% nel 2013, contro una media Ue del 12%) imponeva a qualunque governo l’oneroso compito di individuare dei correttivi di sistema: la riconferma triennale dei docenti può essere uno strumento valido, se opportunamente sfruttato.  

Bisogna poi considerare che le nuove assunzioni di massa dalle graduatorie a esaurimento introdurranno nelle scuole docenti che sono stati selezionati solo nel caso in cui abbiano frequentato, negli anni Duemila, le scuole di specializzazione per l'insegnamento. Altri, che amano definirsi “vincitori di concorso”, sono in possesso solo di un'idoneità che però non è stata, al momento del concorso, sufficiente a far ottenere loro la piena titolarità, dunque non hanno “vinto” ma “perso”. Infine, altri ancora hanno avuto accesso a queste graduatorie in virtù di titoli e percorsi abilitanti “abbreviati” e non selettivi. Nell'impossibilità di verificare nuovamente queste idoneità su base anche solo regionale (un concorso a cattedre si è appena concluso), il governo ha pensato di delegare le funzioni selettive ai dirigenti scolastici, allo scopo di temperare gli effetti negativi di un provvedimento che si configura come l'ennesima distribuzione di ruoli di docenza ope legis nella triste storia del nostro sistema di istruzione.

Fatta dunque la legge, sarà importante che nella scuola s’introducano nuove e buone pratiche. La responsabilità dei dirigenti scolastici in questo senso è enorme. La trasparenza delle operazioni di selezione dovrà essere massima, ed è bene che tanto gli uffici scolastici quanto i sindacati svolgano compiti di vigilanza sulle operazioni di reclutamento. Quello che la nuova legge, infatti, impone è un nuovo modo di concepire i rapporti gerarchici tra dirigente e docenti, che, per quanto possa apparire paradossale, può e deve, adesso, basarsi non sull’antagonismo, ma sulla collaborazione. La nomina dagli albi territoriali può diventare un meccanismo in cui s’incontrano l’esigenza del dirigente di valorizzare la propria scuola e quella del docente di veder riconosciute delle competenze o delle inclinazioni personali. I colloqui previsti per definire l’assunzione possono diventare lo spazio in cui si definisce o no questa convergenza. I docenti dovranno trasformarsi, non c’è dubbio. I dirigenti dovranno saper guidare questo cambiamento di mentalità: molti temono che questo non sia possibile perché anche tra i dirigenti scolastici la qualità umana, culturale e professionale è assai varia. Tuttavia, se la fase di passaggio sarà senz’altro dura, è al dopo che bisogna guardare. L’abbattimento del criterio di anzianità come unico misuratore del valore dei docenti è un traguardo che consentirà anche a giovani capaci e ben formati di emergere all’interno delle scuole, con enorme vantaggio per tutti gli alunni. La rielaborazione triennale dei piani di lavoro consentirà una flessibilità della didattica che sarà, quella sì, pienamente in linea con il principio della libertà d’insegnamento, se i docenti per primi impareranno a impugnare la fase progettuale insieme e non contro i dirigenti. È il momento di fare sistema, anche con nuovi comportamenti e responsabilità individuali.