È indubbio che i quattro anni di Donald J. Trump alla Casa Bianca verranno ricordati come una presidenza per molti aspetti inedita, in quanto palesemente indirizzata alla difesa di un’America «bianca» e poco inclusiva della «diversità» presente nella società statunitense. Il presidente ha fatto della «chiusura» verso l’esterno un assioma plasticamente identificabile nell’enfasi data all’approvazione del travel ban (dopo pochi giorni dall’insediamento alla Casa Bianca) e alla costruzione del «muro» lungo il confine con il Messico. Un progetto che, caso unico nella storia recente statunitense, ha ricevuto il sostegno di vari gruppi suprematisti bianchi, che nei precedenti decenni avevano individuato nella presidenza un nemico piuttosto che un punto di riferimento.

A fronte di un Paese che sta cambiando e che vedrà entro la metà del secolo i «non white» diventare maggioranza, nel suo arroccarsi intorno a una tradizionale identità «bianca» Trump ha giocato molto intorno al concetto di cittadinanza. Sebbene oggi i Paesi nel mondo applichino questo termine in maniera assai flessibile, il presidente americano ha tentato in vari modi di ridefinirlo in chiave prettamente razziale, agendo spesso contro i precetti costituzionali e prassi politiche consolidate nel tempo. Alcune azioni presidenziali lo indicano con chiarezza. In primo luogo ha proposto di rivedere la birth citizenship, vale a dire il diritto a essere cittadino per chi nasce su suolo americano in base al cosiddetto ius soli. Il principio venne stabilito nel 1868 dal XIV emendamento costituzionale con l’obiettivo di concedere la cittadinanza agli ex schiavi emancipati dopo la Guerra civile; venne poi confermato da una sentenza della Corte Suprema del 1898, che riconobbe il diritto a essere cittadino al figlio di una coppia di immigrati cinesi nato su suolo statunitense. Da allora lo ius soli è diventato uno dei cardini del «sogno americano», permettendo alle nuove generazioni di immigrati di istruirsi e migliorare le proprie condizioni sociali in un contesto di riconosciuta cittadinanza. Tuttavia, contro il dettato costituzionale, il magnate newyorchese ne ha proposto l’eliminazione per i figli degli immigrati «irregolari», trovando accoliti fra alcuni esponenti del Partito repubblicano. In questo si è, però, palesata la sua ignoranza istituzionale, dal momento che un passaggio del genere prevede una complicata revisione costituzionale che non si limita a un mero ordine esecutivo della Casa Bianca.

Il presidente, che ha sempre sostenuto il birtherism, ha poi usato la cittadinanza come arma di delegittimazione politicaIl presidente, che ha sempre sostenuto il birtherism, cioè la falsa teoria secondo la quale Barack Obama sarebbe stato un presidente illegittimo perché non nato su suolo americano, ha poi usato la cittadinanza come arma di delegittimazione politica. Lo si è visto quando ha invitato alcune congressiste a lui ostili, e che fanno capo a Alexandra Ocasio-Cortez, a «ritornare» nei «loro Paesi» per risolverne i problemi, puntando quindi il dito contro la loro etnicità e negando quasi il fatto che queste fossero cittadine americane. Del resto il Department of Homeland Security ha messo in discussione l’autenticità della naturalizzazione (cioè l’acquisizione della cittadinanza statunitense) di molte persone di origine ispanica, che al confine meridionale degli Stati Uniti si sono viste trattenere il passaporto dietro l’accusa di aver falsificato i propri documenti. In tal senso, denunciando possibili frodi su larga scala, vi è stata anche la proposta di dar vita a una massiccia revisione dei processi di naturalizzazione già conclusi, mentre è stato reso assai più complicato il test per acquisire la cittadinanza.

Trump non ha risparmiato nemmeno le forze armate, che nella storia americana sono state una delle principali agency di americanizzazione. Il presidente ha infatti agito per rallentare, o bloccare, l’acquisizione della cittadinanza statunitense dei soldati stranieri, diversamente dai suoi predecessori Bush e Obama, che avevano favorito la pratica in linea con una tradizione di lungo corso.

L’amministrazione repubblicana ha voluto dire la propria anche sul censimento che, dal 1790 e ogni dieci anni (quindi anche nel 2020), in base a quanto stabilito dalla Costituzione conta tutte le persone residenti sul suolo americano, indipendentemente dal proprio stato legale, comprendendo quindi anche gli immigrati irregolarmente presenti negli Stati Uniti. Questo conteggio è particolarmente importante, dal momento che redistribuisce il numero dei rappresentanti alla Camera per ogni Stato in base alla propria popolazione. Rompendo una prassi consolidata, il presidente ha chiesto che ai censiti nel 2020 venisse domandato se questi fossero cittadini americani o meno, proposta che è stata però rigettata dalla Corte Suprema. Secondo i suoi detrattori, il presidente avrebbe voluto una citizenship question per intimorire i non cittadini e spingerli a non farsi censire, diminuendo così il loro peso demografico in quegli Stati (per lo più democratici) in cui sono maggiormente presenti. Non pago del diniego dell’alta Corte, la scorsa estate Trump ha chiesto che nel censimento non venissero conteggiati gli immigrati «irregolari», andando ancora una volta contro al dettato costituzionale e aprendo una nuova diatriba che dovrebbe essere affrontata dalla Corte Suprema nei prossimi mesi.

Non pago del diniego dell’alta Corte, Trump ha chiesto che nel censimento non venissero contati gli immigrati irregolari, andando contro il dettato costituzionale e aprendo una nuova diatribaQueste azioni se hanno avuto talvolta il sapore della boutade elettorale per mobilitare la propria base, nondimeno sono state indicative del modo di agire di una presidenza che si è opposta sistematicamente all’ingresso nel Paese di persone straniere, attuando politiche la cui legalità è risultata spesso quantomeno dubbia. Dure restrizioni sono state imposte ai richiedenti asilo politico, che sono stati spesso costretti ad attendere in Messico l’udienza di una corte statunitense. Grande scalpore mediatico ha ricevuto la separazione dei figli dai genitori immigrati al confine, ma in generale l’amministrazione ha posto forti ostacoli anche ai detentori di green card e persino alla mobilità verso gli Stati Uniti dei lavoratori altamente qualificati e delle loro famiglie. Infine, complice la pandemia, sono stati intimati gli studenti stranieri a lasciare il Paese in virtù della sospensione delle lezioni in presenza nei campus universitari.

Il neoeletto Joe Biden ha promesso un cambiamento radicale rispetto alle politiche del suo predecessore, nonché una riforma del sistema dell’immigrazione a stretto giro. Si tratta di un proposito non semplice da mettere in pratica, soprattutto se le elezioni del 5 gennaio in Georgia non assegneranno i due seggi senatoriali rimanenti ai democratici, stabilendo così un pareggio 50-50 alla Camera alta rotto soltanto dal voto della vicepresidente Harris. Ciononostante, la retorica di Biden ha voluto segnare un distacco rispetto al suo predecessore, concretizzandosi anche attraverso la scelta di esponenti delle minoranze nel suo governo. La nomina di Debra Anne Haaland, prima nativa americana chiamata a guidare il dipartimento dell’Interno, va chiaramente in questa direzione.