«Ma che altro avevo io dentro, se non questo tormento che mi scopriva nessuno e centomila?». Riflettendo sulla traiettoria di Bologna, soprattutto sulla sua attuale condizione, mi è tornato in mente questo passaggio del romanzo di Luigi Pirandello, in cui l’autore mette in bocca al protagonista (Vitangelo Moscarda) l’angoscia di un’identità incerta, smarrita o forse mai esistita. E se anche Bologna – intendo quella del XXI secolo, che si prepara alle prossime elezioni amministrative – fosse a modo suo una città pirandelliana? Senza identità o con identità «fluida», come si direbbe oggi, in grado di (voler) essere tante cose diverse, ma incapace di scegliere una direzione, di darsi un destino?

In passato si sono sprecate le etichette, poi diventate cliché, per Bologna: la dotta, la grassa, la rossa, solo per citare le più note, a cui poi si sono aggiunte quelle più adatte al dibattito politico, soprattutto nel mondo del centrosinistra. Ed ecco allora la città-laboratorio, per un Pci che doveva essere al contempo di lotta (nazionale) e di governo (locale), oppure la città-vetrina, per mettere in bella mostra le conquiste del patto socialdemocratico in salsa bolognese. Solo più tardi, nella fase della globalizzazione sregolata e del capitalismo digitale, Bologna si è presentata, di volta in volta, come l’epicentro della Food Valley, della Motor Valley e, da ultimo, della Data Valley.

In questo quadro cangiante, la «fósca turrita Bologna», nelle parole del «suo» Carducci, si mostra come una città in perenne evoluzione, alla ricerca di un centro di gravità permanente che, però, nonostante tutti gli sforzi, non riesce a individuare. Già questo la pone in netta controtendenza con le altre città italiane che, nel bene o nel male, hanno trovato un loro equilibrio, in certi casi anche negativo. Milano ha rilanciato la sua vocazione industriale e finanziaria, e pare sempre più orientata ad affermarsi come la vera metropoli globale d’Italia. Torino è diventata una città inquieta, intrappolata tra un passato fordista che non passa e il nuovo che addirittura si fa fatica a intuire. Roma, invece, ha trovato il suo equilibrio nel declino, in una condizione di rassegnata, forzata atarassia. La capitale riluttante di un Paese declinante. Infine, Napoli è la città che ha fatto delle contraddizioni la sua ragion d’essere, e che continua ad avere in Gian Battista Vico il suo principale interprete, perché la storia, soprattutto quella napoletana, è fatta di «corsi e ricorsi», in cui ogni passo avanti nel processo di modernizzazione è frenato, come una zavorra, da tradizioni che non si riescono a superare.

In questo atlante delle città italiane, in cui ogni realtà urbana indossa la sua maschera e fa il suo compito, Bologna non ha un ruolo e si presenta come una città in cerca d’autore. Non si tratta però dello stesso smarrimento che si vive a Torino o della rassegnazione al peggio che aleggia su Roma. L’incertezza bolognese sulla propria identità è, in realtà, un sentimento – a suo modo – produttivo, che fa dell’esplorazione di diverse opzioni un volàno per la crescita.

Nell'atlante delle città italiane, Bologna non ha un ruolo e si presenta come una città in cerca d’autore: l'incertezza sulla propria identità è, però, un sentimento produttivo, che fa dell’esplorazione di diverse opzioni un volàno per la crescita

Naturalmente, non c’è nulla di nuovo o di sbagliato nel voler percorrere contemporaneamente strade diverse, che aprono a molteplici prospettive. La proverbiale inclusività di Bologna deriva anche da qui, cioè da questo sforzo nel tenere assieme tutto e il suo contrario: di voler essere uno snodo fondamentale nella nuova platform economy ma anche una green city con ambizioni europee; oppure una Univercity, una cittadella a misura di studente universitario, che appena si presenta l’occasione del mercato piattaformizzato cede porzioni del suo territorio (e del suo centro storico) a turisti mordi-e-fuggi (con buona pace degli studenti, e magari anche dei vari comitati civici anti-movida). Il precario equilibrio tra studentification e gentrification, un po’ hub di Amazon e della galoppante logistica dell’e-commerce e un po’ città progressista che si preoccupa di elaborare – la prima in Italia – la Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano.

È questo lo scenario pirandelliano che ci si trova di fronte osservando Bologna con un po’ di distacco e che l’attuale pandemia ha contribuito ulteriormente a evidenziare, mettendone soprattutto in rilievo gli eccessi e i difetti. A partire, lo abbiamo già accennato, da una crescita incontrollata del settore turistico che, nel corso dell’ultimo decennio e grazie all’arrivo all’aeroporto Marconi delle compagnie low cost, è aumentato, in termini di arrivi in città, di oltre il 70%. Una rivoluzione silenziosa che ha stravolto il volto di Bologna, innescando una bolla nel mercato degli affitti e spingendo gli studenti sempre più spesso «fuori porta». Una bolla che la pandemia ha contribuito, almeno per il momento, a sgonfiare: solo nel 2020 il numero di arrivi dei turisti in città, sia italiani sia stranieri, è crollato del 65% rispetto all’anno precedente, con conseguenze evidenti sul mercato immobiliare, sulle attività ricettive e sull’intero indotto del commercio.

Se la pandemia è stata un’epifania per un fenomeno, come quello dell’esplosione turistica, che non si è voluto né controllare né governare, lo stesso vale per altri due aspetti altrettanto rilevanti. Il primo è di natura demografica e, da questo punto di vista, il Covid-19 è stato una cartina al tornasole che ha mostrato quanto possa essere fragile lo sviluppo di una società, come quella bolognese (e non solo), che continua a crescere soltanto grazie al flusso migratorio, con nuovi residenti provenienti per i due terzi dall’Italia e per un terzo dall’estero. Appena questo meccanismo di crescita «esogena» si inceppa, com’è accaduto sotto le Due Torri nel 2020 (con un saldo naturale pari a -2.360 e un saldo migratorio di 1.788 unità), la popolazione inizia a declinare (un evento che non accadeva da quasi 15 anni).

Il secondo aspetto che l’arrivo della pandemia ha rivelato in tutta la sua nettezza è di tipo socioeconomico. Se la crisi sanitaria ha colpito soprattutto la popolazione più anziana (solo a Bologna, nel 2020, oltre 600 decessi per Covid-19, di cui il 75% con un’età superiore agli 80 anni), le conseguenze economiche della pandemia hanno pesato invece sulle fasce d’età inferiori e su determinate categorie sociali, tra cui rientrano le donne, i lavoratori precari e gli autonomi, in particolare nei settori del commercio e dei trasporti. E anche in questo caso la pandemia ha mostrato alcune disparità che già esistevano nel mercato del lavoro e che oggi sono state ulteriormente acuite. Ancora prima della crisi pandemica, la differenza di reddito tra un trentenne e un sessantenne bolognese era, in media, di 13mila euro (a vantaggio, ovviamente, del secondo) e si tratta di un dato destinato ad aumentare se si tiene conto che, nel 2020, il tasso di occupazione è diminuito di quasi 4 punti percentuali per gli under 35, mentre è rimasto stabile o è persino aumentato per gli over 55. Lo stesso argomento vale per le donne che, già prima della crisi, a Bologna soffrivano di un differenziale retributivo di 30 euro rispetto agli uomini per ogni giornata lavorativa e che ora sono state maggiormente colpite dal calo dell’occupazione (-1,6% rispetto al -0,6% dei maschi).

Di fronte alle trasformazioni messe in moto dalla pandemia, la città di Bologna è chiamata a fare ciò che non fa da tempo, cioè prendere decisioni in maniera tempestiva su opzioni di sviluppo alternative. Finora, su tutte le questioni più spinose – dalle infrastrutture al Welfare, passando per la mobilità, l’inquinamento, il decoro urbano – la città si è barcamenata, lasciandosi governare dagli eventi piuttosto che provare a indirizzarli. Lo abbiamo visto sul turismo, ma lo stesso approccio è stato utilizzato per affrontare il nodo del cosiddetto Passante (né a Nord né a Sud, ma «in mezzo», lungo l’attuale corridoio tangenziale/autostradale), per programmare lo sviluppo urbanistico (concedendo ulteriore superficie – e suolo – alle aziende della logistica), per ritardare decisioni rilevanti nel settore fieristico (ad esempio, la fusione delle Fiere di Bologna e Rimini) così come in quello aeroportuale.

Ecco allora quello che manca oggi a Bologna, per curioso paradosso della storia: il governo, che non va confuso né con l’amministrazione né con la politica

Ecco allora quello che manca oggi a Bologna, per curioso paradosso della storia: il governo, che non va confuso né con l’amministrazione né con la politica. L’amministrazione, quella che riguarda le scelte quotidiane, c’è e continua a funzionare. Sotto questo profilo, Bologna resta una città ben amministrata e lo dimostrano gli indici di gradimento dei cittadini sia in riferimento alla qualità della vita (con giudizi positivi per il 91% dei bolognesi) che alla qualità dei servizi (con valutazioni positive, in media, per l’80% dei residenti).

Anche l’attività politica, che trova espressione nel coinvolgimento dei cittadini bolognesi nei comitati civici o di quartiere, nelle associazioni, nei movimenti o nelle manifestazioni pubbliche, continua a mostrare segni di vivacità e interesse. A dimostrazione che il senso civico, soprattutto in una società che cambia la sua popolazione del 40% ogni dieci anni, non è una dote personale, ma è il prodotto del contesto e delle sue istituzioni che può essere trasferito di generazione in generazione. Ne abbiamo avuto dimostrazione domenica scorsa, con la partecipazione di oltre 26mila bolognesi alle primarie del centrosinistra. Oppure, a fine 2019, con l’esplosione (già rientrata) del movimento delle Sardine in risposta all’avanzata della Lega salviniana in Emilia-Romagna.

In questo puzzle, l’unico tassello mancante è quello del governo, cioè di una squadra di amministratori che si assuma il compito di scegliere e di indicare una strada di sviluppo per Bologna. Da circa un ventennio questa capacità di programmazione politica è venuta meno, soprattutto all’interno di quel partito, il Pd, che a Bologna continua a essere elettoralmente dominante, centro di un «sistema di potere» – come viene spesso descritto – che in realtà si è rivelato sempre più spesso un «sistema di impotenza», all’interno del quale la conservazione degli equilibri esistenti prevale sulla necessità di prendere decisioni rilevanti e impattanti per il futuro della città. Un sistema, peraltro, favorito dall’assenza di un’opposizione credibile, che renda quantomeno ipotizzabile la prospettiva di un’alternanza. Invece, Bologna rimane una democrazia senza alternative, dove l’unico confronto tra visioni diverse della città avviene – come nel caso della sfida tra Matteo Lepore e Isabella Conti – dentro il perimetro del centrosinistra.

Forse, l’origine dell’attitudine pirandelliana della città felsinea deriva da questa assenza di governo: dal non volere – o non potere – prendere decisioni che indichino chiaramente una meta e il percorso per raggiungerla, preferendo la navigazione a vista. Il che può funzionare finché il mare è calmo, ma quando fuori c’è tempesta sarebbe preferibile che la guida fosse salda e sicura della propria rotta. «Quis tu es, Bononia?» Se qualcuno conosce la risposta, si faccia avanti.