Fra pochi giorni si inizierà a votare per scegliere il prossimo presidente della Repubblica e i partiti sono ancora in alto mare. A sinistra sono bloccati dalle loro debolezze mentre a destra la prima mossa di Berlusconi, anche se dovesse rivelarsi una mossa falsa, ha immobilizzato tutte le pedine. Questo è il quadro alla vigilia del voto, a cui si aggiungono i soliti retroscena e le solite interviste di rito ai leader (o sotto-leader) di partito, che non fanno altro che complicare uno scenario già di per sé complesso.

Si è fatta strada l’idea che debba essere il centrodestra a dare il primo giro di carte/nomi perché, si dice, avrebbe la maggioranza di “grandi elettori”. È un’idea sbagliata

Per provare a capire come finirà la partita del Quirinale è invece necessario sbrogliare la matassa e indicare quelli che sono elementi strutturali con i quali, prima o poi, le forze politiche dovranno fare i conti. Ne indico due, quelli che ritengo i più importanti e che non sono in alcun modo aggirabili. Il primo è l’aritmetica parlamentare, cioè l’equilibrio tra le forze in campo nel collegio dei cosiddetti “grandi elettori”. Da almeno un mese si è fatta strada l’idea che debba essere il centrodestra a dare il primo giro di carte/nomi perché, si dice, avrebbe la maggioranza di “grandi elettori”. È un’idea sbagliata, e anche se viene ripetuta quotidianamente la sostanza non cambia. La situazione in Parlamento (a cui si aggiungono i 58 delegati regionali) è quella che vedete nella figura qui sotto, con il centrodestra che controlla (in potenza, s’intende) 453 voti e il blocco giallorosso (cinquestelle, grillini, piddini e sinistre varie) a capo – sempre in potenza – di 445 voti. Considerata la fluidità dei due schieramenti, già così si capisce che è una situazione di sostanziale equilibrio, senza primati ben identificabili. Ma se al conteggio aggiungessimo anche i parlamentari dei gruppi liberali/moderati di centrosinistra (Italia Viva, Azione, +Europa, Centro Democratico), poco meno di un centinaio, il ruolo di kingmaker spetterebbe ai partiti di centrosinistra in formato extralarge (lo stesso che ha sostenuto la candidatura di Letta nel collegio vacante di Siena).

Blocco giallorosso: M5S, PD, Leu, Alternativa, FacciamoEco, ex-M5S senza affiliazione;
Altri CS: Italia Viva, Centro Democratico, Azione, +Europa, PSI;            
Centrodestra: Lega, Forza Italia, FdI, Cambiamo/Coraggio Italia, Noi con l'Italia, Rinascimento;
Altri: non iscritti senza chiara inclinazione politica, minoranze linguistiche, Senatori a vita.

Nonostante i noti e ormai patologici livelli di trasformismo parlamentare, sono questi i numeri di partenza dai quali si dovrebbe sviluppare ogni successivo ragionamento politico. Ma, si sa, i numeri bisogna saperli contare e, ancor più, bisogna saperli fare contare. Da questo punto di vista, è evidente che l’alleanza giallorossa non ha saputo farlo: non solo non è riuscita, finora, a far valere il suo peso, ma si è lasciata ingabbiare da una narrazione infondata (la maggioranza al centrodestra), per di più incentrata su una candidatura improbabile, sotto ogni profilo, come quella di Silvio Berlusconi.

In questo quadro, non stupisce che sia stato il leader di Italia Viva il primo a concedere il ruolo di kingmaker al centrodestra, a dispetto dei numeri e dell’aritmetica parlamentare. Infatti, ormai dovrebbero essere chiare le finalità strategiche di Renzi: 1) manomettere il blocco giallorosso e 2) destabilizzare il neo-bipolarismo a cui si sta provando a dar vita. In un colpo solo, ossia con l’apertura di Italia Viva al centrodestra per l’elezione del presidente della Repubblica (e forse non solo per quella), Renzi raggiunge entrambi gli obiettivi, con il rischio di una spaccatura a sinistra e un colpo all’assetto bipolare.

L’alleanza giallorossa si è lasciata ingabbiare da una narrazione infondata (la maggioranza al centrodestra), per di più incentrata su una candidatura improbabile, sotto ogni profilo, come quella di Silvio Berlusconi

Tuttavia, al di là dei tatticismi di cui, forse, in questa fase, avremmo fatto a meno, arriverà presto il momento in cui i partiti dovranno venire a patti con la realtà e con i numeri dei “grandi elettori”. E la realtà questa volta è semplice: nessuno dei due principali schieramenti ha la maggioranza per potersi eleggere, in autonomia, il proprio presidente della Repubblica. Quindi serve necessariamente un accordo. Ma quale?

Qui si inserisce il secondo elemento strutturale di cui finora nessuno sembra volere tenere conto. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, siamo chiamati a scegliere un capo dello Stato nel momento in cui a Palazzo Chigi è insediato un “governo del presidente”, cioè un esecutivo che, oltre alla fiducia esplicita che riceve dal Parlamento, si regge sulla fiducia implicita del Quirinale. Questa coincidenza trasforma automaticamente la “normale” elezione del presidente della Repubblica in un “gioco a due livelli”, nel quale gli attori in campo devono tenere conto, allo stesso tempo, dell’arena del Quirinale e dell’arena governativa, e soprattutto degli effetti dell’una sull’altra. Ogni decisione che verrà presa sul Colle rimbalzerà su Palazzo Chigi, e tanto più quella decisione si distaccherà dall’attuale assetto duale, quanto più grandi saranno le conseguenze sulla maggioranza di governo. Anche i “grandi elettori”, che nel frattempo saranno diventati saggi, arriveranno presto alla conclusione che solo un accordo largo tra i due principali schieramenti è in grado di preservare l’attuale assetto politico-istituzionale. Sgombrato allora il campo dalle candidature di cartapesta, ci si accorgerà in fretta che le mosse a disposizione delle forze politiche sono a malapena tre. Eccole, in rigoroso ordine di opportunità politica e correttezza co/istituzionale:

  1. la mossa del cavallo: diversa dalla, e opposta alla, mossa del Cavaliere, prevede l’indicazione di una candidatura bipartisan (o non-partisan) in grado di raccogliere il più vasto consenso tra le forze politiche dell’attuale maggioranza. Per essere effettivamente tale, il cavallo o la cavalla deve essere realmente di razza, riconosciuta come tale in Italia e all’estero;
  2. la mossa del drago: prevede l’ascesa dell’attuale capo del governo al Quirinale, naturalmente con maggioranza ampia che includa un accordo preventivo su missione, composizione e durata del nuovo esecutivo;
  3. la mossa dell’arrocco: è l’estrema linea difensiva di partiti incapaci di proporre un nome e un assetto alternativi a quello di Sergio Mattarella. Se non uno sfregio, si tratterebbe di un “graffio” alla Carta costituzionale, che pericolosamente toglierebbe al precedente del 2013, con la rielezione di Napolitano, quell’alone di assoluta eccezionalità che andrebbe invece salvaguardato.

Chi propone altre soluzioni al rebus del Quirinale sta bluffando o sta giocando col fuoco. Ma non è certo questo il momento né di giocare né di scherzare.